Una manifestazione a Londra l'8 marzo del 1973: lavoro e parità gli slogan di quegli anni, validi (
Una manifestazione a Londra l'8 marzo del 1973: lavoro e parità gli slogan di quegli anni, validi (purtroppo) ancora oggi

We can do it! Noi donne ce la possiamo fare

La nostra direttrice Maria Elena Viola racconta il numero speciale dell'8 marzo 2022 dedicato al lavoro femminile, una priorità per dare una spinta all'economia italiana

CE LA POSSIAMO FARE. Con questo slogan l’America reduce da Pearl Harbor e ufficialmente entrata nel secondo conflitto mondiale cercava di tirare su il morale del popolo e contemporaneamente incoraggiare il lavoro femminile, quanto mai necessario, soprattutto nell’industria bellica, in un momento in cui gli uomini erano dovuti partire per il fronte. Sotto la scritta, una giovane lavoratrice col fazzoletto rosso annodato in testa ritratta nel gesto di rimboccarsi le maniche.

Siamo tutte Rosie

Per disegnarla, J. Howard Miller, grafico incaricato dalla Westinghouse Company di realizzare una serie di poster a supporto della guerra, si era ispirato a Rosie The Riveter, Rosie la rivettatrice, operaia instancabile della catena di montaggio protagonista di una canzone molto popolare del 1942. Su chi fosse davvero questa Rosie le tesi si sprecano. Per alcuni si trattava di Rosina Bonavita, lavoratrice della General Motors passata alla storia per aver totalizzato 900 fori e 3.345 rivetti in un unico cacciabombardiere. Per altri di Geraldine Hoff Doyle, 17enne impiegata in una fabbrica del Michigan che lasciò presto i rivetti per suonare il violoncello. Per altri ancora di Rose Will Monroe, rivettatrice della Willow Sun Aircrafts Factory, già utilizzata in un filmato di propaganda con chiare finalità belligeranti.

Rosie fu il primo manifesto femminista

Qualunque fosse la sua vera identità, “la rivettatrice”, cioè la manovale specializzata a collegare elementi meccanici, divenne il simbolo delle donne impiegate in lavori di fatica e più in generale di tutte coloro che andavano a occupare posizioni tradizionalmente maschili. Questo spiega come mai la sua fama sia riemersa ed esplosa negli anni a venire, soprattutto tra i ’70 e gli ’80, quando le prime contestazioni di piazza divampavano e quel bicipite messo in mostra grazie a un gesto sfrontato e un po’ ambiguo rappresentava il perfetto manifesto delle iniziali istanze femministe.

Più donne al lavoro! Oggi come nel ’43

Sono passati quasi 80 anni dalla sua prima apparizione, eppure l’immagine di Rosie, nata per fini patriottici e riciclata a portabandiera di tante battaglie in favore dell’empowerment e della parità, è ancora contemporanea e tristemente necessaria. «The more women at work, the sooner we win», più saranno le donne al lavoro e prima vinceremo, recitava uno dei 125 milioni di spot diffusi nel ’43 per incentivare l’occupazione femminile. Nel 2022 quel monito è ancora valido. E, ahinoi, tuttora disatteso.

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La nostra cover con Nina Zilli

Nina Zilli per Donna Moderna

Approfittando dell’intelligenza e dell’ironia di Nina Zilli, che si è prestata a reinterpretare Rosie The Riveter posando per noi in copertina, abbiamo deciso di dedicare questo numero dell’8 marzo al lavoro. Perché è da lì che passa la maggior parte delle rivendicazioni femminili, da lì che si riverberano a cascata i benefici per l’una e l’altra metà del cielo, con ricadute inevitabili sul Pil, la crescita, l’evoluzione della società e anche l’armonia di coppia.

Poco lavoro e di bassa qualità

Oggi in Italia lavora il 50,5% delle donne, un po’ di più di due anni fa, annus horribilis d’inizio pandemia, molto di meno rispetto alla media europea che arriva al 65%, con picchi dell’80 salendo su al Nord. Al momento occupiamo il penultimo posto tra i Paesi comunitari e la grama posizione in classifica non è neanche il peggiore dei mali. Peggio della quantità c’è la qualità del lavoro: a tempo determinato e part time. Quindi poco retribuito e precario. Malgrado il buon livello di istruzione, soprattutto nella fascia delle 25-34enni. Avvilente.

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Anche il lavoro femminile è una priorità

La cosa che purtroppo non sembra ancora chiara è che questo infame primato non è una sconfitta per le donne, è una sconfitta per l’intero Paese, il quale sperperando un tale potenziale di menti e forza lavoro ci perde a livello economico e sociale: si produce di meno, si fanno meno figli, si butta via tutto ciò che si è investito in formazione, lasciando i cervelli scappare. Una laureata col massimo dei voti che non trova collocazione o la trova in una posizione al di sotto delle proprie capacità è un fallimento nazionale, non personale. Un po’ come investire su Ibrahimovic per poi farlo giocare nella squadra parrocchiale. So bene che ora ci sono altre e più gravi emergenze globali. E buone buone, ancora una volta, ci metteremo in coda ad aspettare. Ma questo ci premeva ricordare a ridosso della festa della donna e in attesa dei fondi del Pnrr. Un’occasione da non sprecare. Poi, sia chiaro, vogliamo anche le rose. Pardon, le mimose. Ma sottolineo, anche.

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