Karen Guggenheim
Karen Guggenheim

Karen Guggenheim: «Come si impara a essere felici»

«Possiamo scegliere di essere felici». È ciò che questa 50enne americana, Karen Guggenheim, ha fatto dopo la morte improvvisa del marito. E che oggi insegna in tutto il mondo: «Non significa soffocare il dolore, ma allenare le emozioni positive»

Dopo 3 piani a piedi, Karen Guggenheim si ferma sul pianerottolo di un palazzo milanese e impartisce una mini lezione di psicologia positiva: «Bene così! Almeno abbiamo fatto un po’ d’allenamento». Nella sua vita precedente solo il pensiero di rinunciare all’ascensore l’avrebbe fatta sbuffare di insofferenza. Ma nel 2013 questa 50enne americana ha imparato a guardare la quotidianità con occhi diversi. «Mio marito si è ammalato di influenza e in 10 giorni è morto» racconta. «Era un medico e viaggiava molto per lavoro, mentre io mi dedicavo ai nostri 2 figli di 19 e 16 anni. La sua scomparsa ha cancellato la mia identità: all’improvviso ero come una neonata con le responsabilità di un’adulta».

Karen non si è limitata a ritrovare il sorriso. Nel 2017 ha organizzato il primo World Happiness Summit (Wohasu), un evento internazionale sulla scienza della felicità e del benessere, che nel marzo del 2022 tornerà in presenza a Miami, dove lei vive. Allora, senza saperlo, è diventata la pioniera di una «rivoluzione della consapevolezza» che oggi si sta diffondendo. «Con il Covid le persone hanno capito che si muore davvero» spiega. «Questa è l’unica esistenza che abbiamo e perciò bisogna darle un significato».

La felicità è una disciplina come la biologia?
«Anch’io sono rimasta sorpresa quando l’ho scoperto, ma è così. A patto che si basi su pratiche scientifiche, insegnate da esperti, e in grado di creare nuovi percorsi neuronali che spingano il cervello a pensare positivo. La mindfulness, l’attività fisica o la gratitudine, per citarne qualcuna: tutte attività sperimentate a lungo, che funzionano».

È così che lei ha ricominciato a gioire?
«Prima di perdere mio marito consideravo la felicità come un evento accidentale, qualcosa che proveniva dall’esterno: se venivo invitata a una festa o trovavo un parcheggio vicino all’ingresso del supermercato, ero felice. Altrimenti restavo in uno stato di mezzo, quasi assopita. Poi ho capito che potevo scegliere l’ottimismo ogni giorno, praticandolo come si fa con lo yoga: così sono passata da una visione in bianco e nero a una a colori».


«Una volta consideravo la felicità un evento accidentale, che proveniva dall’esterno. poi ho capito che questa è l’unica esistenza che abbiamo e perciò bisogna darle un significato, praticando l’ottimismo ogni giorno»


È possibile rinascere più forti dopo un lutto?
«Sia chiaro: una tragedia resta tale, non può diventare un evento positivo. Ma il punto è un altro: dobbiamo trarre il meglio dalla realtà per quella che è, senza rimuginare sul perché le cose succedano. Quando sono rimasta sola ero sotto shock. Avrei smesso di vivere, ma una vocina interiore mi ha fatto riflettere: “E i ragazzi?”. Allora mi sono detta: “Se proprio devo andare avanti, niente vittimismi: voglio essere felice”. Mi restava da capire come. Non ero stata in grado di farlo prima, quando tutto era perfetto, figuriamoci in quel momento così catastrofico».

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La prima cosa che ha fatto?
«Ho indossato una T-shirt ricevuta in regalo tempo prima con la scritta: “Io sono la felicità”. Era un modo per supportarmi, come si fa con le maglie della squadra del cuore. Poi ho fatto un master in Business administration alla Georgetown University, un sogno che avevo messo da parte da giovane per dedicarmi alla famiglia. La prima lezione è stata sull’analisi del business, un argomento difficilissimo per me: se divagavo con la mente anche per un attimo, non capivo niente. Ma così non potevo preoccuparmi per i miei figli o sentire la mancanza di mio marito».

A un certo punto si è messa a recitare.
«Sì, fingevo di essere felice, copiando le persone che lo erano veramente: accettavo inviti a pranzo, ascoltavo musica, perché così si comportavano gli altri».


«Occorre creare nuovi percorsi neuronali che spingano il cervello a pensare positivo. Attività come la mindfulness e lo sport funzionano»


Quando ha smesso di simulare?
«La sera in cui un amico ha fatto una battuta divertentissima e tutti sono scoppiati a ridere. Io titubavo. In fondo le vedove non si divertivano, indossavano abiti neri, si tagliavano i capelli. C’è voluto qualche secondo prima di concedermi una risata, ma da quel momento mi sono sentita come liberata».

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Com’è nata l’idea di un summit sulla felicità?
«Dopo il master ho trovato un lavoro di responsabilità in un’agenzia di comunicazione: sulla carta era perfetto, ma a un certo punto ho capito di odiarlo. Un giorno, ascoltando i discorsi di alcuni volontari sul tema del benessere, ho sentito questa frase: “Scelgo di essere felice”. Apriti cielo! Era quello che avevo fatto io qualche anno prima. Così mi sono messa a studiare la psicologia positiva e dopo 6 mesi ho dato le dimissioni per creare Wohasu. Avevo trovato la mia missione, e il coraggio di fare cose che prima detestavo, come parlare in pubblico».

Tra le pratiche che ha citato, a quale si affida?
«Lo yoga, che conoscevo già da anni, e l’immaginazione, uno strumento potentissimo. Peccato che siamo abituati a usarla in modo catastrofico: se per esempio una mattina ci cade il telefono di mano, ci prefiguriamo una giornata storta. Invece la fantasia va sfruttata a nostro favore. Quando vado a letto mi racconto una sorta di favola della buonanotte: metto da parte le cose negative, come gli impegni non mantenuti, con la promessa di occuparmene il giorno dopo. Poi visualizzo la persona che voglio essere e ciò che voglio ottenere. Se sono in ansia, penso alla neve che cade e subito mi calmo».

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L’80% delle persone che partecipano al summit sono donne. Stare bene interessa più a noi?
«Sì, forse perché per natura gravitiamo verso l’empatia, la collaborazione, la cura degli altri. Come sappiamo, l’indicatore numero uno del benessere mentale sono le relazioni umane. Ma c’è un risvolto positivo: siamo capaci di scatenare un effetto domino».

Che ne pensa di una lezione di felicità a scuola?
«Magari! Non è facile, ma ci stiamo lavorando. Dovrebbero frequentarla anche gli insegnanti, però, perché se non sono felici loro non possono esserlo gli studenti. Lo stesso vale per i genitori con i figli. E metterei sui banchi pure i dirigenti d’azienda, che devono arrendersi davanti ai numeri: se i lavoratori sono contenti, la produttività aumenta del 31% e le assenze per malattia si riducono del 66%. La felicità ti fa venire voglia di saltare giù dal letto, alimenta le idee e la voglia di fare».

Se dovesse definire la felicità…
«La felicità è un processo per attraversare la vita, che è fatta di esperienze diverse, alcune fantastiche e altre dolorose. Scegliere di essere felici significa sintonizzarsi il più possibile sulle emozioni positive, pur sapendo che non ci sono solo quelle. Ma, come è capitato a me, il dolore può funzionare come una sveglia, che ti aiuta a rialzarti e a crescere».

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