Cosa vuol dire avere una mamma disabile?

Quando una mamma diventa a poco a poco cieca e poi sorda, i figli rischiano di perdere le loro certezze: vacilla il loro pilastro. Ma poi tutto si ricompone e si ridisegnano nuovi equilbri, come testimonia Paola, figlia di Matilde, che incontriamo alla Lega del Filo d'oro di Napoli

Cosa può volere dire per un ragazzino avere la mamma disabile? Come si trasforma il suo mondo, come cambia il suo raggio d’azione e, soprattutto, si sente diverso dagli altri? Con queste domande incontro Matilde e sua figlia Paola al centro della Lega del Filo d’Oro di Napoli. Matilde ha 51 anni, Paola è una ragazza solare e gioiosa di 22 anni che oggi va all’università. In pochi anni, ha visto la sua mamma perdere del tutto la vista prima un occhio e poi l’altro, e diventare progressivamente sorda per una malattia genetica. «Ho visto il mio pilastro sgretolarsi. Mentre si spegnevano i suoi sensi, si spegnevano anche le mie certezze. Ma se mio fratello minore si rinchiudeva in se stesso e rifiutava questi nuovi equilibri che si ridisegnavano intorno a lui, io sceglievo di stare vicina alla mamma. Studiavo all’ospedale durante i vari ricoveri, dormivo con lei, finché ho anche perso un anno di scuola ma sì, lo rifarei» racconta Paola.

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In questo abbraccio, nel cui conforto Matilde si rifugia, la mamma sembra quasi Paola. Paola frequenta la Facoltà di Scienze motorie a Napoli e il suo sogno – che in realtà è un progetto concreto – è quello di aprire una palestra per aiutare le persone con disabilità, come la sua mamma.

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Matilde ha imparato tanti lavori di destreza da quando frequenta la sede di Napoli della Lega del Filo d’Oro. Tra questi, il lavoro a maglia: i “lavoretti” che portano a casa i bambini dalla scuola materna, sono in realtà un ottimo esercizio per le persone cieche.


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Nel frattempo Matilde, già oltre i 45 anni, scopre di aspettare un altro bimbo, il terzo. È già quasi cieca, comincia a diventare sorda e gli altri figli sono adolescenti. La gravidanza poteva trasformarsi in uno tsunami destinato a travolgere tutta la famiglia, invece lei sceglie di non abortire e di far nascere Gabriele. «L’avrei tenuto a qualsiasi condizione. Ero pronta a tutto. Invece è nato vispo e sano». In quella fase così delicata, Matilde trova l’aiuto della Lega del Filo d’Oro che, attraverso la sede di Napoli, la sostiene con tutti gli strumenti possibili: Matilde impara il braille, l’alfabeto Malossi, comincia a frequentare il Centro Nazionale di Osimo per ottenere il piano terapeutico e capire quali ausilii poter usare. Un’altra vita da impostare, con un altro figlio e la prospettiva della sordità, forse peggiore del non vedere. Viene sempre più assistita dagli operatori e dai volontari in tutto ciò che comporta l’organizzazione della sua nuova esistenza da cieca e quasi sorda, a casa e fuori: l’installazione dei macchinari per sentire il citofono e la porta, l’uso del telefono con le app giuste, l’aiuto nella mobilità, tra il bastone bianco e gli accorgimenti per spostarsi nel traffico della città. E poi il supporto indispensabile per non perdersi nella burocrazia.

E mentre Paola e Marco sono nell’età in cui si freme per emanciparsi dalla famiglia e incontrare la propria libertà fuori dagli schemi già tracciati, si ritrovano invece risucchiati all’indietro, loro già grandi, da un frugoletto che rotola per casa, e che cresce con una mamma cieca e quasi sorda. «Ma questo non ha voluto dire per noi perdere tempo prezioso e impedirci di crescere. Non abbiamo dovuto occuparci del piccolo più di quanto non avrebbero fatto altri fratelli. Anzi, vedere la “normalità” con cui Gabriele trattava la mamma, per noi è stata la spinta a credere sempre di più in lei e quindi in noi, nella possibilità di vivere un giorno la nostra vita». Gabriele è nato con una mamma così. Per lui la sua mamma era quella. «Era normale avvisarla degli ostacoli, spostare i giochi quando passava, prendersi cura di lei con la tenerezza dei suoi anni». I figli di persone con disabilità crescono come tutti gli altri ragazzi? Probabilmente sì, anche se viene facile pensare che chi ha in casa un genitore con qualche problema sia più adulto o responsabilizzato. Invece per i figli delle persone disabili tutto ciò è normale, non è il risultato di particolari insegnamenti o spinte a crescere prima. «I bambini come Gabriele non vedono la disabilità del genitore: per loro “mamma non vede e basta”. La loro mamma non è disabile» dice Paola. «Noi più grandi abbiamo dovuto accettarlo, invece. Ma la fatica è stata più nostra che sua».

Matilde infatti lotta con i problemi alla vista da quando aveva tre anni. «Sono nata ipovedente in un occhio, mi sono abituata ad avere questo deficit» racconta Matilde. «Poi un’encefalite causata dal morbillo mi ha lasciato alcuni problemi fisici, così la mia famiglia mi ha spinto a fare sport, dalla mountain bike all’arrampicata al judo. Ora nel judo sono una campionessa, ho partecipato ai Nazionali e sono stata convocata ai prossimi Mondiali Paralimpici in Portogallo, dal 16 al 18 novembre». Questa donna energica e combattiva si allena in una palestra vicino a casa, in un quartiere popolare di Napoli, dove tutti si conoscono e si aiutano. È amata e benvoluta: le portano la spesa a casa, le danno una mano quando si muove a piedi e si sposta in metropolitana per l’incontro settimanale alla Lega del Filo d’Oro, ma senza compassione. «Detesto la pietà. So che ho dei limiti, ma tutti li abbiamo. Chi è che decide la disabilità degli altri? In fondo, tutto può essere normale e tutto può essere anormale».

Non esistono famiglie perfette, ognuna ha una storia, dei valori, uno stile e dei problemi unici che saranno comunque diversi da quelli delle altre. Il piccolo Gabriele non si vergogna della sua famiglia così particolare e della sua mamma: questi sono pensieri che appartengono semmai a noi adulti. Per gli amici che entrano in casa sua, la sua famiglia è semplicemente una realtà da scoprire, come tante altre. E ognuno di loro si comporterà in modo diverso in base alla casa nella quale entrerà, al di là che i proprietari siano o meno persone disabili: in fondo, un amico ha la mamma strana, un altro mangia cose diverse, un altro ancora magari ha due mamme o due papà. I bambini non sono diffidenti ma curiosi, chiedono tutto quello che non capiscono. Ma la curiosità per il nuovo dura finché quel nuovo non viene spiegato, dopo diventa tutto normale e il primo pensiero non è concentrarsi sulle diversità, ma giocare con gli amici e divertirsi.

Aiuta anche tu la Lega del Filo d’Oro

La Lega del Filo d’Oro, presente in 8 regioni con Centri Residenziali e Sedi territoriali, dal 1964 assiste e riabilita le persone sordocieche (189.000 in Italia) e con deficit psicosensoriali, cercando di accompagnarle all’autonomia. Il lavoro prezioso dell’associazione è garantito, oltre che dai volontari, dalle donazioni. Tutti possiamo contribuire ai progetti in corso: il più ambizioso è la costruzione del nuovo Centro nazionale a Osimo, in parte già realizzato. Noi lo abbiamo visitato ed è una struttura accogliente e funzionale che, grazie a spazi ampi, può ospitare e supportare molte persone, tra familiari e persone con sordocecità. Ma c’è bisogno dell’aiuto di tutti per ultimare i lavori.

Fino al 31 dicembre possiamo donare tramite un semplice SMS solidale digitando il numero 45514.

Per saperne di più sulla Lega del Filo d’Oro

Quasi il 50 per cento delle persone sordocieche ha anche una disabilità motoria, 4 su 10 hanno danni permanenti legati a una disabilità intellettiva. In 7 casi su 10 le persone sordocieche hanno difficoltà ad essere autonome nelle più semplici attività quotidiane come lavarsi, vestirsi, mangiare, uscire da soli. Un “esercito” di invisibili con disabilità plurime di cui spesso s’ignora l’esistenza. Dal 2006 le risorse raccolte grazie al 5×1000 hanno permesso all’associazione di moltiplicare il suo aiuto: i centri sono diventati 5 in tutta Italia, le sedi territoriali 8, le persone assistite quasi 900.

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