Non posso dimenticare

Nel lager nazista Carla Liliana Martini è stata umiliata, picchiata. Però è sopravvissuta. E ha trovato la forza di ricordare. Perché, dice, i giovani di oggi sappiano quello che è successo allora

Sono passati più di 60 anni dalla Shoah, lo sterminio degli ebrei nei lager nazisti. Carla Liliana Martini è sopravvissuta, ma ha ancora nelle narici l’odore dei forni crematori che bruciano carne umana. Oggi è un’insegnante in pensione di Zanè, in provincia di Vicenza, ha 80 anni e una baldanza straordinaria. Eppure solo poco tempo fa ha trovato la forza di raccontare il suo atroce passato in tre campi di concentramento: Mauthausen, Linz, Grein ad Donau. Lo ha fatto nel libro Catena di salvezza, pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova in occasione della Giornata della memoria, che il 27 gennaio ricorda l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz nel 1945.

Perché ha taciuto così a lungo?

«Quando mia sorella Teresa e io siamo tornate a casa, la nostra famiglia ci ha accolte teneramente, senza farci domande. Parlare era troppo doloroso. Anni dopo ho tentato di raccontare quello che che avevamo passato ai miei compagni di università, ma sono stata accusata di essere pazza, di essermi inventata tutto. Così mi sono rinchiusa in me stessa».

Poi cos’è successo?

«Una mia amica, qualche anno fa, mi ha chiesto di parlare dei campi di concentramento agli studenti dei licei padovani. Devo trovare la forza, mi sono detta. Ricordare è un dovere, i ragazzi devono sapere perché quest’orrore non si ripeta mai più».

Come mai è finita a Mauthausen?

«Ero in un gruppo clandestino organizzato da un padre francescano, Placido Cortese. Un uomo eccezionale».

Cosa facevate?

«Davamo ospitalità agli ebrei e ai prigionieri anglo-americani liberati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e ricercati dai soldati nazisti. Padre Cortese usava le foto degli ex voto dei fedeli della basilica di Sant’Antonio a Padova per fabbricare loro documenti falsi, e noi li accompagnavamo in treno fino alla frontiera con la Svizzera. Ma cinque uomini delle SS, fingendosi prigionieri, ci hanno scoperto. Era il 14 marzo 1944: Teresa e io siamo state deportate a Mauthausen, in Austria».

Com’era la vostra vita nel lager?

«Siamo state picchiate, umiliate, affamate. Leccavamo una brodaglia scura dalle scodelle e dormivamo a turno in una stanza con il pavimento inclinato per far scorrere l’urina. Per fortuna ci è stato risparmiato l’orrore dello stupro: i nazisti addestravano i cani lupo apposta per violentare le prigioniere. Sapevamo che, se non avessimo resistito, saremmo finite nei forni crematori. Il fumo che usciva dai camini ce lo ricordava ogni giorno. È qui, tra la vita e la morte, che ho compiuto 18 anni, l’età più bella per una ragazza».

Per quanto siete rimaste prigioniere?

«Per più di un anno. Dopo Mauthausen, Teresa e io siamo state trasferite nei campi di Linz e Grein ad Donau. Sono tornata in Italia malata di turbercolosi ossea, ma viva. Padre Cortese no. È finito nella prigione della Gestapo a Trieste, gli hanno spezzato le mani, lo hanno torturato fino alla morte. Questo libro è dedicato a lui, a tutti i piccoli grandi eroi che non sono più tornati».

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