Quella sera in cui il lupo schivò il suo destino

Camminava sotto gli alberi da ore, ascoltando il silenzioso fruscio del vento fra i rami. Al passaggio degli scarponi le formiche avevano deviato il corso perfetto della fila, che ora avanzava scomposta. Non si era accorto degli insetti, preso com’era dalla fatica, i pensieri, suo figlio, la donna che aveva amato. La vita minuscola trasportava pezzi di afidi a brandelli. La falange aveva attaccato i pidocchi delle piante alle prime luci del giorno, mentre il picchio batteva in alto, ritmico, sul tronco: un colosso di trenta metri, centodieci anni, centoventi indietro. L’insignificante durata degli umani aderita alla vita di un albero, due secoli racchiusi in tre palmi. Tra poco, i taglialegna sarebbero giunti in cima al promontorio, avrebbero avvertito l’odore pungente della resina, degli aghi seccati alla serra di foresta. L’esemplare vecchio da sostituire. In natura, tutto sottostà alle leggi che avvitano il mondo: cresci, ti assottigli, incidi su di te le ferite dei giorni che fanno e disfano un corpo. Per poi, infine, lasciare spazio ai giovani.

Aria nuova. I boscaioli, con la motosega e i cunei, avrebbero abbattuto il gigante. Lo schianto al suolo si sarebbe propagato al sottosuolo dove le gallerie delle talpe s’inoltravano per chilometri sotto fiori profumati, dalle corolle gialle. Quel suono l’avrebbe percepito l’orso nella valle di sopra, un esemplare maschio dal manto bruno, intento a grattarsi la schiena, e poco distante la femmina color miele. L’avrebbe inteso persino lo scoiattolo nella sua tana di ghiande. Poi gli uomini avrebbero pranzato, dentro le gamelle spezzatino al sugo tiepido e pane bianco da strappare a morsi, una liturgia laica che rendeva tutti pari e fratelli.

Il caposquadra sarebbe tornato col pick-up verso la segheria, a depositare la prima parte dei tronchi sezionati, pronti per i rulli. I liutai, tra l’alburno e il mallo, avrebbero trovato due pallettoni, bossoli provenienti dal moschetto di un fante francese che secoli prima era sceso tra le valli di Fiemme a portare il verbo del re, Napoleone, l’Imperatore che, se solo avesse potuto, avrebbe racchiuso il mondo dentro il pugno di una mano. Quel fante sarebbe morto anche lui in terra straniera. Negli stessi boschi, Stradivari aveva sfiorato il durame degli abeti rossi di risonanza, perché i violini li costruisci spaccando, sottraendo corteccia al dio ligneo della foresta.

Alla fine la vita era tutta lì. Tra chi vedeva la poesia e chi nemmeno sapeva abbassare la voce. Il lavoro e la preghiera, avevano in comune le mani giunte e il grembo. La vita femmina. E noi pezzi di luna da staccare. L’uomo che camminava alzò la testa alla porzione di cielo azzurro sopra i larici, Il mondo è una ferita, pensò. Si fermò a stappare la borraccia. Bevve a risparmio, come aveva imparato a fare dopo anni d’escursioni.

Bellamonte, Predazzo. Non rammentava nemmeno più chi gli aveva detto di percorrere il sentiero: È pericoloso – nel bar dove i vecchi giocavano a carte, bicchieri di vino rosso che sporca il vetro – Sono tornati i lupi, gli avevano detto le voci roche del paese, Mangiano le pecore. Uno dei pastori aveva messo le trappole allora. Ne aveva catturati sei solo il mese scorso. L’uomo aveva ascoltato senza replica, prima di andare, col fiato tenuto. Gli anziani avevano continuato a gettare denari, coppe, spade e ba- stoni, semi sul tavolo a restituire schiaffo al destino cinico e baro. Condanna agli uomini, d’ogni latitudine e censo, a riconoscere che i giorni erano tutti lì. Intere esistenze racchiuse in una manciata di minuti, ore. L’abilità vera era farne qualcosa.

Qualche metro sopra le finestre della locanda, luci accese nel buio della valle, il lupo staccava carne rossa dalla carogna a terra. Denti aguzzi gialli a tirare via viscere filamenti e nervi, suoni umidi dall’animale morente. I corpi, dentro, sono schifosi ma l’essere no. Negli occhi del lupo bruciavano ancora le immagini dei corpi del branco, appesi. L’uomo usava metallo e inganno. Tre fratelli si erano fidati della tagliola. Di loro non erano rimasti che corpi informi, legati ai rami bassi, carne esposta ai venti e i corvi. Il predatore sapeva di doversi nascondere. Avvertì a fame che mordeva. Nessuno vide la lince tra l’ombra e il pulviscolo del sottobosco. Il collo, le orecchie appuntite, le vibrisse sul muso bianco e schiacciato.

Eppure. Un uomo cade dal ponte di una nave. È un operaio di una piattaforma petrolifera. Un migrante sul barcone. Un bambino che poi dimenticheremo. Disperso tra i flutti. Sale e oscurità. Alla fine, non siamo altro che naufraghi attaccati a un’illusione buia. La lince scomparve nell’istante in cui l’uomo sul sentiero affrontò l’ultimo tratto. Era arrivato. Di fronte a sé vide i denti di drago del Passo Rolle. Rocce taglienti, il bosco una dimenticanza appena. Sopra i duemila, il verde lascia il passo alla vita minerale. Non siamo padroni di niente, assottigliò lo sguardo alle vette che tra poco avrebbero ceduto colore, Tutt’al più conviviamo, finì il pensiero. Slacciò il peso dello zaino. Sedette a gambe incrociate. Nuvole rosa e cremisi. Tra poco sarebbe stato il tramonto sulle Dolomiti.

Guardò al mondo alto che si apriva di fronte ai suoi occhi, per la prima volta silenziosi dopo anni, Siamo acqua e cielo, volpe, albero. Non lo disse. Forse nemmeno lo pensò. Poco sotto il pianoro, la lince s’incamminò. Il fantasma dei boschi avrebbe varcato altri confini, Austria, Scandinavia, fiabe che nel tempo avevano alimentato mondi, i fratelli Grimm, calderoni magici e litanie di streghe.

Quella sera il lupo avrebbe schivato il pastore. Nel suo incedere a zig zag, guardingo, la figura esile avrebbe alimentato altre leggende ancora, sussurri tra gli scricchiolii di chissà quante altre case, baite di legno dall’intavolato antico sopra ponti, rifugi, stüe di poeti tra Montespluga e Motta. Così l’orso avrebbe poggiato zampa e peso sulle foglie, profumo di ginepro alle prime luci dell’alba. I bambini avrebbero dormito nelle case. Sotto le stelle che, quella notte, avrebbero brillato splendenti a ovest, sopra il Brentei, traversate le perigliose creste del Monte Corno, Tovel, Campo Carlo Magno e l’Adamello Brenta. Un altro camminatore il mattino dopo avrebbe provato a salire le Bocchette Centrali, chilometri dipanati su valli a strapiombo, vite fissate a moschettoni e corde. Sentieri aperti a bocca di lupo. Equilibristi su camminamenti d’aria. Uomini e animali. Tutta la vita che siamo. Un respiro selvaggio.

pubblicato in accordo con Grandi&Associati



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