South Working: pro e contro

Il South Working, cioè il ritorno dei lavoratori dalle città ai paesi d'origine durante il lockdown, potrebbe diventare una condizione stabile e vantaggiosa. Ma solo per per alcune categorie di lavoratori

Chi sono i south workers

Claudia
Di Bari è pugliese, vive a Roma da 3 anni e lavora nella divisione
commerciale di OpenFiber. A partire dal 10 marzo Claudia ha lavorato
in smart working nella casa della sua famiglia a Manfredonia. A
settembre Claudia è tornata a Roma.

Giuseppe Maria Blasi, ingegnere informatico calabrese, a Milano dal 2012, lavora per una società di consulenza internazionale e si occupa di cyber risk management. Da inizio marzo, dopo un breve periodo di smart working a Milano, è rientrato in Calabria. Giuseppe potrà restare a lavorare in Calabria almeno fino alla fine di quest’anno.

Lydia
Siragusa, anche lei pugliese, è una chimica computazionale e dal
2014 lavora in modalità smart working per l’azienda inglese
Molecular Discovery Ltd. Poi è passata alla sua ‘sorella
italiana’, la Molecular Horizon, una start-up di Perugia.
Dopo un primo periodo di lavoro in sede, è
tornata in smart working in seguito all’emergenza coronavirus.
Lydia è rimasta a lavorare in Puglia e incontra il suo team circa
una volta al mese a Perugia.

Cosa
hanno in comune Claudia, Giuseppe e Lydia?

Sono south workers, ossia lavoratori rientrati nelle regioni di origine (molte, ma non tutte nel Sud Italia) per lavorare da remoto e che hanno ritrovato non solo il calore di familiari e vecchi amici, ma anche – in base alla loro opinione – una migliore qualità di vita.

Il South Working è nato durante la pandemia

Il South Working è un fenomeno nato sull’onda della pandemia, quando molte aziende hanno consentito ai loro dipendenti di lavorare da casa. Chi ha potuto, ha scelto di tornare nelle regioni di origine, dalla propria famiglia. Molti ci sono rimasti anche per tutta l’estate. Alcuni di loro sono tornati a Nord a settembre: l’inizio della “nuova normalità” ha spinto alcune aziende a richiamare i propri dipendenti in sede per uno o due giorni alla settimana. Anche chi aveva figli che a settembre avrebbero ripreso le scuole in presenza non ha potuto fare altro che rientrare. Alcuni invece sono ancora a Sud e sperano di restarci ancora a lungo, aziende permettendo.

Pro e contro del South Working

Per chi era andato via inseguendo le proprie ambizioni professionali c’è una bella soddisfazione nel tornare nelle regioni di origine e conservare quel lavoro che, fino a poco tempo prima, pareva si potesse svolgere solo stando a Roma, Milano, Bologna se non perfino all’estero. Ci sono vantaggi del tornare a vivere al Sud senza scendere al compromesso di un lavoro sottopagato o con una mansione lontanissima dalle proprie aspirazioni o competenze. «Ci sono stati molti lati positivi nel lavorare in Puglia negli ultimi mesi – dice Claudia Di Bari – innanzitutto l’ottimizzazione dei tempi senza dover sprecare ore e ore per spostarsi nel traffico, la possibilità di poter vivere nel proprio paese e di avere la propria famiglia accanto, il cibo più sano e meno smog». Ma non è tutto rose e fiori: «Non stando in ufficio rischiavo di perdere il confine tra vita privata e lavorativa e mi mancavano i rapporti sociali che avevo a Roma».

Giuseppe Maria Blasi rimpiange i momenti di relazione con i colleghi tipici della vita aziendale: la pausa caffè al distributore automatico, il pranzo in mensa, le chiacchiere prima e dopo le riunioni… Per chi come lui lavora in ambito cyber security è fortemente sconsigliato utilizzare uno spazio co-working. Nonostante la nostalgia e il senso di alienazione che deriva dal lavorare sempre da solo in casa, Giuseppe è convinto che la sua vita ne abbia guadagnato sotto tanti punti di vista:«Mi godo la mia famiglia e i miei amici d’infanzia. Eliminando i tempi morti degli spostamenti casa-lavoro, che nel mio caso erano di due ore al giorno, ho raggiunto un perfetto equilibrio fra lavoro e vita privata, ho ripreso i miei hobby, ho seguito corsi di formazione on line e ho perfino partecipato a un hackathon sull’accessibilità dei disabili alle nuove tecnologie».

Per Lydia Siragusa i vantaggi di poter lavorare in remoto dalla Puglia sono indiscutibili, soprattutto perché è mamma di una bimba di 3 anni che ha iniziato lì la scuola materna: «Non potrei chiedere di meglio. In questo periodo di inizio anno scolastico posso seguire l’inserimento della mia bimba in prima persona rimandando il lavoro al pomeriggio, quando rientra il papà, o al mattino presto, o ad altri giorni: il vantaggio di lavorare a progetto è proprio quello. Certo, non viene meno la grande fatica di conciliare la vita da mamma e da lavoratrice ma la flessibilità di orario è un grande aiuto. Inoltre vivendo qui in Puglia posso garantire alla mia bimba sia la vicinanza dei nonni che dei cuginetti, oltre al mare per quattro mesi l’anno».

Identikit
dei south workers

Che caratteristiche hanno i south workers? Secondo la mappatura fatta dall’associazione “South Working – Lavorare dal Sud”, basata sulla compilazione di oltre 1900 questionari e qualche centinaia di esperienze raccontate dai lavoratori stessi, si tratta di giovani professionisti con un livello di istruzione alto (laurea o dottorato) e un lavoro altamente qualificato soprattutto nel settore ICT, digital marketing, consulenza informatica o digitale, farmaceutico (a meno che non si tratti di impianti produttivi) ma anche terziario avanzato come le assicurazioni o i servizi legali. La maggior parte di loro non ha ancora creato una propria famiglia e spesso pensano alla regione di origine come al luogo in cui crescere i propri figli. Molti di loro hanno evidenziato una contrapposizione fra la soddisfazione data dal proprio lavoro e salario e l’insoddisfazione per la lontananza dalla famiglia. Il lockdown e il ritorno a Sud sono state per loro l’occasione per dedicare più tempo agli affetti e a se stessi. E pochi rinuncerebbero volentieri a queste conquiste.

Vicinanza fisica alle persone care, soprattutto la famiglia, sommata al costo della vita più basso del Sud sembrano un mix vincente per rendere il South Working un modello vita attrattivo. Lo è anche dal punto di vista dell’emancipazione personale? La stragrande maggioranza dei south workers rientrati durante la pandemia è tornata a vivere a casa dei genitori, rinunciando in parte a quell’autonomia conquistata pian piano in anni di lontananza, di appartamenti condivisi con sconosciuti o di sacrifici per far quadrare il bilancio. «Il South Working poteva essere realizzato con calma e intelligenza nel corso degli ultimi anni, da quando esiste il PC e lo smartphone» afferma il sociologo Domenico De Masi. «Invece la miopia aziendale lo ha accettato solo sotto la sferza del coronavirus. Dunque, in questo primo momento, i giovani tornati al Sud hanno dovuto accettare condizioni di emergenza ma, via via, troveranno una loro vita ben più equilibrata di quella cui erano costretti da immigrati nel Nord. Tanto più che i borghi meridionali sono spopolati e gli alloggi costano molto meno che a Milano o a Torino».

Il South Working ha un futuro?

L’autunno è arrivato, molti sono rientrati nelle città in cui lavoravano pre-pandemia e ci si domanda se il south working sia un fenomeno “stagionale” destinato a esaurirsi con la bella stagione, o un nuovo paradigma per ripensare l’organizzazione del lavoro, fare un uso intelligente della digitalizzazione e rimettere in moto l’economia di aree del paese che hanno visto una emorragia di cervelli per l’assenza di grandi industrie e terziario.

Le città del Nord torneranno a popolarsi come ai livelli pre-covid? Secondo De Masi non c’è ragione perché questo accada: «Le ricerche effettuate in tutto il mondo dimostrano che, lavorando in smart working, la produttività aumenta del 15-20%. Dunque non c’è nessun bisogno che i giovani meridionali tornino al Nord. Possono lavorare tranquillamente nei loro paesi di origine, con grande vantaggio sia per se stessi, sia delle aziende settentrionali dalle quali continueranno a dipendere».

De Masi è convinto che il South Working abbia le carte in regola per diventare un fenomeno duraturo: «Il primo marzo di quest’anno gli smartworkers, cioè coloro che lavoravano lontano dall’ufficio, erano poco più di mezzo milione. Dopo l’8 marzo, con il lockdown, sono schizzati a 8 milioni. Benché questa trasformazione, che si sarebbe potuta fare gradualmente e razionalmente, sia avvenuta a rotta di collo» continua il sociologo. «Tuttavia questo grande esperimento involontario ha dato i suoi frutti convincendo migliaia di capi e di dipendenti che il south working è il futuro. Per ora, dunque, non ci sono impatti notevoli; man mano, però, alcune città del Nord avranno i centri urbani meno intasati e alcuni paesi del Sud si ripopoleranno. Con grande vantaggio per tutta la penisola».

Anche Elena Militello, presidente dell’associazione “South Working – Lavorare dal Sud”, palermitana rientrata in Sicilia da Lussemburgo proprio durante la pandemia, ritiene che «è l’occasione per ripensare il modello di sviluppo del Sud Italia, che tradizionalmente sarebbe dovuta partire dal miglioramento di infrastrutture e servizi (cosa annunciata ma mai realizzata in molte aree del paese), per poi attrarre investimenti delle aziende e infine attrarre persone. Il South Working, invece, come primo passo fa leva sul ritorno delle persone che dovrebbero essere il catalizzatore dei miglioramenti del territorio». Per diventare permanente, secondo Militello quel ritorno deve però poter contare su due condizioni imprescindibili: la banda larga e un aeroporto vicino.

Spazi
di lavoro adeguati e servizi

L’associazione sta anche portando avanti un movimento di opinione per uscire dallo stato emergenziale che ci ha visto relegati in casa a lavorare, situazione che ha portato a un sovraccarico di mansioni soprattutto per le donne, e spinge affinché si diffondano spazi di coworking non solo per lavorare, ma anche come “presidi di comunità” che, come spiega Elena Militello «servono a far superare l’isolamento tipico di chi non incontra più i colleghi in ufficio e a creare sinergie fra i lavoratori che si vogliono impegnare per il rilancio dei territori». L’associazione sta censendo gli spazi per il lavoro agile sul territorio italiano come coworking, bar attrezzati, biblioteche, o librerie, per permettere ai lavoratori, ovunque vadano, di trovare un luogo adeguato a lavorare.

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