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Smart working: come funziona

Si chiama smart working o telelavoro o lavoro agile: permette di lavorare da casa alle stesse condizioni dei colleghi in ufficio o nella sede dell’azienda datore di lavoro. In Europa ne usufruisce l’11,6% dei lavoratori alle dipendenze di imprese o organizzazioni pubbliche (dati Eurostat 2018), mentre in Italia il dato si ferma al 2% rendendo il nostro paese fanalino di coda, davanti solo a Cipro e Montenegro, ma ben distante da Regno Unito (20,2%), Francia (16,6%) o Germania (8,6%) e soprattutto dalle realtà del nord Europa. Eppure questa forma di lavoro agile è prevista da una legge di tre anni fa  e solo adesso, a causa dell’emergenza coronavirus, se ne scoprono i “vantaggi”. Ecco in cosa consiste, quali sono i benefici per chi vi ricorre e quali le limitazioni.

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Come funziona lo smart working

Secondo il Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro in Italia ci sarebbero 8 milioni 359mila lavoratori che potrebbero lavorare in modalità “smart”, da casa o da altra sede concordata con l’azienda. Si tratta soprattutto di professionisti, manager, quadri, impiegati d’ufficio e tecnici, ai quali potrebbero aggiungersi altri 2 milioni 758mila che potrebbero ricorrervi in modo saltuario, o più o meno stabile.

A regolamentare la materia è la legge 81 del 2017, la quale prevede che per attivare il lavoro agile sia sufficiente un accordo scritto tra datore di lavoro e dipendente, regolarmente depositato su un portale del ministero del Lavoro: «Solo di recente, grazie al DPCM del 25 febbraio 2020 sulle misure di emergenza da coronavirus, il governo ha concesso una deroga consentendo il ricorso allo smart working con un’autocertificazione» spiega Antonello Orlando della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.

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Retribuzione, malattia e ferie

«Il trattamento del dipendente in smart working è esattamente identico a quello del lavoratore in ufficio. Ha diritto a maturare lo stesso quantitativo di ferie ed è coperto dagli infortuni dall’Inail per tutti quei casi legati alle mansioni concordate con l’azienda: ad esempio, se si rompe una sedia o se si fa male a causa di un cavo elettrico, ecc. Non rientrano negli infortuni coperti, invece, eventuali problemi connessi ad altra attività, come ad esempio sollevare pesi se non previsto dall’accordo con il datore di lavoro» spiega Orlando.

Perché lo smart working è poco diffuso?

Rispetto ai paesi del Nord Europa, in Italia il telelavoro è poco diffuso. Basti pensare che la quota di lavoratori che possono lavorare da casa anche con una flessibilità oraria in Svezia e Olanda è del 31%, in Islanda e Lussemburgo del 27% circa, in Danimarca e Finlandia del 25%, come spiega la Fondazione Consulenti del Lavoro. Perché? «Se da un lato sono evidenti i benefici per il dipendente che lavora da casa in termini di conciliazione vita privata e lavoro, riduzione dei tempi e dei rischi legati allo spostamento casa-lavoro, dall’altro lato l’adozione di questo modello implica da parte delle aziende uno sforzo organizzativo rilevante in termini di investimento tecnologico, revisione dei processi di lavoro, formazione e valutazione dei dipendenti e soprattutto il superamento delle naturali diffidenze che possono sussistere da parte del management e degli stessi lavoratori» dice il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca. «In Italia esiste una certa resistenza e diffidenza culturale, che si unisce a un tessuto economico fatto soprattutto di piccole e medie imprese, dove c’è un maggior controllo sui dipendenti. Non a caso i pochi esempi di smart working riguardano grandi aziende, che l’hanno adottato gradualmente e solo per poche ore» dice Antonello Orlando.

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I limiti oggettivi dello smart working: digitalizzazione e tipo di imprese

Esistono poi dei limiti oggettivi: «L’Italia è costituita da molte imprese manufatturiere. È difficile pensare che un laboratorio di pelletteria in Toscana possa attuare il telelavoro, anche solo per l’impossibilità di avere a casa i macchinari necessari. C’è poi anche un problema di ritardo nella digitalizzazione che scontiamo in Italia» spiega Orlando. Vanno infine considerati altri due aspetti: uno riguarda la capacità di organizzazione autonoma, che è il presupposto essenziale per chi lavora da casa (e potrebbe essere soggetto a molte più fonti di distrazione). A questo si unisca l’oggettivo limite di non avere confronti e contatti diretti con i colleghi, cosa che potrebbe portare a qualche forma di alienazione. L’altro riguarda le dotazioni, che potrebbero non essere fornite dall’azienda (in questi casi però il datore di lavoro potrebbe ovviare con altri benefit, legati a una maggiore flessibilità).

I vantaggi dello smart working

Il primo è la maggior possibilità di conciliare vita privata e lavorativa, sotto molti punti di vista. «In molti casi gli accordi prevedono un’ampia fascia oraria di lavoro, in genere dalle 8 alle 20, all’interno della quale il lavoratore deve rendersi disponibile 8 ore, con finestre orarie fisse (soprattutto dalle 10 alle 14 e dalle 16 alle 18) con maggiore flessibilità invece nel resto della giornata” spiega il consulente.

Un altro vantaggio connesso è la possibilità di occuparsi maggiormente dei figli, sia da parte della madre che del padre che lavori in modalità “smart”. Questo permette anche una maggiore alternanza dei ruoli» dice Orlando.

Smart working o finte partite Iva?

Una differenza tra l’Italia e i paesi del Nord Europa è anche la fascia d’età dei lavoratori “agili”: mentre questi all’estero hanno soprattutto tra i 40 e i 59 anni, segno che si tratta di una novità relativamente recente, in Italia interessa soprattutto i giovani. Questo fa pensare che nasconda una forma di lavoro autonomo o da freelance, più che un vero telelavoro: «In realtà spesso si tratta di molte partite Iva, mascherate da rapporti subordinati. Ma così non dovrebbe essere, perché con lo smart working vero il trattamento retributivo è identico a quello del dipendente in ufficio» conclude Orlando.

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