Fatica cronica: cos’è, sintomi, terapie

Per i 200.000 italiani che soffrono di Sindrome da fatica cronica anche portare una busta della spesa o vedere un film diventano imprese impossibili. Ma lo Stato non li riconosce e i medici non sanno curarli

Possono restare giorni a letto guardando il soffitto, senza muovere un dito. Salire un piano a piedi li costringe a ore di riposo, a volte persino guardare la tv o il cellulare diventa un’impresa impraticabile. Sono letteralmente malati di stanchezza, una patologia rara che ha il nome di Sindrome da fatica cronica/Encefalomielite mialgica o solo Cfs/Me. Conosciuta in tutto il mondo, si stima che in Italia colpisca tra le 100 e 200.000 persone, con diversi gradi di gravità, per lo più giovani tra i 20 e i 40 anni, in tre casi su quattro donne.

Per lo Stato i pazienti non esistono

Non li vediamo, perché passano la maggior parte del loro tempo chiusi tra le mura di casa. E non li vede il Sistema sanitario nazionale, che non ha incluso la malattia in alcun registro ufficiale, previsto protocolli diagnostici né una rete di centri specializzati. Per lo Stato semplicemente questi pazienti non esistono, nonostante la Cfs/Me sia stata riconosciuta dall’Oms e l’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, abbia dedicato un’intera pubblicazione sulla sindrome. Per farli uscire dall’invisibilità la Cfs, Associazione italiana onlus malati, ha chiesto qualche mese fa al ministero della Salute di inserire la patologia nei Livelli essenziali di assistenza, primo step per riconoscere ai pazienti percorsi di cura specifici ed esenzioni. In ottobre è arrivata dal dicastero una prima risposta scritta: «Metteremo la richiesta in calendario». Poi più nulla.

Impossibile compiere azioni banali

C’è da aspettare, si suppone, ma intanto la vita dei malati si ferma. La fatica cronica non è un disturbo passeggero, è una patologia seria. «Un malato su quattro è costretto a vivere sotto una campana di vetro, incapace di compiere azioni banali come portare la busta della spesa. Alcuni di noi sono disabili a tutti gli effetti, ma anche i medici ne sanno poco, non di rado capita di essere derisi o ridicolizzati» spiega Giada Da Ros, presidente dell’associazione, affetta da una forma seria di fatica cronica da 29 anni. «Ne avevo 20 quando ho scoperto di essere malata, per anni non sono riuscita a stare in piedi. Se la domenica vado al cinema posso impiegare due giorni per recuperare, ogni impegno anche mentale mi sfianca perché la Cfs non aggredisce solo il corpo. Quando ricevo troppi stimoli, rischio di entrare in uno stato confusionale e non riesco a elaborare le informazioni. La chiamano brain fog, nebbia mentale: per 12 anni mi ha impedito di vedere un film dall’inizio alla fine».

È una malattia del sistema immunitario

La fatica cronica è stata classificata per la prima volta nel 1994. A farlo, un team internazionale di studiosi costituito dai Centers for desease control di Atlanta in cui c’era Umberto Tirelli, oncologo all’Istituto nazionale tumori di Aviano. «Il morbo non è nella testa, è legato al sistema immunitario» chiarisce il medico. «Di solito si scatena dopo un episodio infettivo, un’influenza o una mononucleosi, in alcuni casi dopo un tumore. Dà una stanchezza che si prolunga per almeno sei mesi, con dolori alle articolazioni e febbricola, e che peggiora dopo uno sforzo. Chi ne è affetto non trova mai sollievo, è come se avesse sempre l’influenza: il virus non c’è, ma la risposta immunitaria persiste per anni».

Non esistono parametri clinici per riconoscere la malattia

«L’unico dato è che le persone affette hanno livelli elevati di citochine, proteine del sangue prodotte dal sistema immunitario» spiega l’esperto. Alla diagnosi si arriva a distanza di mesi, spesso dopo avere scartato l’ipotesi di una depressione, perché pochi conoscono la patologia, ancora meno sono quelli che la trattano, più spesso reumatologi o immunologi, in ospedali pubblici o nei pochi centri privati specializzati. Per chi comincia a stare male inizia così una sfiancante trafila di visite e accertamenti, che si somma alla difficoltà di continuare a gestire le continue assenze a scuola o sul posto di lavoro. Uno studio condotto su un centinaio di pazienti italiani e pubblicato su Politiche Sanitarie, riporta che l’81% degli intervistati ha ricevuto la diagnosi dopo un anno dai primi sintomi e il 23% ha rivelato di essere disoccupato a causa della patologia, mentre la media dei giorni di lavoro persi nella fase acuta è di 18 ogni mese.

Alcuni ottengono l’invalidità

Anche Giada non è in grado di sostenere l’impegno di un lavoro stabile, né quello di una famiglia. «Ho impiegato 15 anni per laurearmi in legge. Ho insegnato inglese e sono giornalista, ma mi sostengo grazie alla mia famiglia. Non ho chiesto il riconoscimento dello stato di invalidità, ma ho visto tanti malati vedersi rigettare la domanda. C’è ancora diffidenza intorno a chi dichiara di soffrire di fatica cronica». La legge italiana prevede che chi ha una malattia importante possa avviare la pratica per l’invalidità civile. «A seconda del grado si possono ottenere agevolazioni sul lavoro o nei casi più gravi un assegno mensile» spiega Roberta Beretta Ardino, presidente dell’Associazione malati di Cfs onlus. «Certo nella pratica è più complicato, con questa sindrome non ci sono Tac o referti da mostrare, è indispensabile farsi seguire da uno specialista affidabile che compili la domanda nel modo più accurato e rigoroso possibile perché la richiesta venga accettata». Anche per questo il riconoscimento ufficiale della patologia resta oggi una delle poche ancore per i pazienti.

Non si può guarire

Di sindrome da fatica cronica non si guarisce, fatto salvo un 5% di remissioni spontanee della malattia. Si può migliorare, alternare periodi di “buona” a riacutizzazioni, ma una cura definitiva non c’è ancora. Le terapie prevedono la somministrazione di grandi dosi di vitamine e integratori, corticosteroidi o immunomodulatori, e da qualche anno il professor Tirelli sta sperimentando con buoni risultati l’ossigeno-ozonoterapia, che dà una risposta positiva nel 70% dei pazienti, ma in Italia viene praticata in pochi centri privati.

Come si sopravvive in attesa di una cura?

«C’è tanta disperazione, anche aiutarsi tramite le associazioni è difficile» dice Giada. La comunità di pazienti intanto si dà appuntamento sui social. Tra le associazioni circola un appello globale, che invita i malati di tutto il mondo a scrivere qualcosa di sé su Twitter, ogni mercoledì alla stessa ora (le 21 per l’Italia) usando l’hasthag #MEawarenesshour. L’obiettivo è farlo entrare nei trendtopic e portare i social a parlare della sindrome, di ricerca e di cure. Un modo per dire «Non ci vedete, ma noi ci siamo».

Dove curarsi

In Italia il Veneto ha da poco riconosciuto ufficialmente la Sindrome della fatica cronica come malattia cronica invalidante, ma il percorso di cura e le esenzioni devono ancora essere concretamente avviate. In diversi ospedali pubblici italiani ci sono specialisti che trattano la patologia e in questi anni sono nati anche centri privati specializzati. Un elenco utile è sul sito www.stanchezza cronica.it, alla voce “diagnosi”. Altre informazioni utili sono sul sito www.associazionecfs.com. A livello europeo è stata lanciata una petizione per chiedere all’Ue di stanziare più fondi per la ricerca sulla Cfs/Me (petiport.secure.europarl.europa.eu/).

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