Tatuaggio caviglia donna

Tattoo che passione. Gli italiani primi in Europa per i tatuaggi

Ora il tatuaggio entra nel paniere Istat, lo strumento che calcola l'inflazione sulla base dei beni più amati da noi italiani. Siamo i più tatuati d'Europa, a qualsiasi età e condizione sociale

Siamo un popolo di tatuati che spolvera casa in pantaloni corti, non può prescindere dall’uso del trapano elettrico e non fa più viaggi in cuccette. Così almeno ci fotografa per il 2016 l’Istat con il suo paniere, lo strumento statistico che, per calcolare l’inflazione, misura le variazioni nel tempo dei prezzi di un determinato numero di beni e servizi, focalizzandosi su 80 comuni capoluogo di provincia per formare il campione definitivo. I prodotti stipati nel paniere sono 1.476, e ci sono parecchie new entry. Tra panni cattura polvere, trapani, bermudini, leggings da bimba o bevande vegetali, la novità più curiosa è rappresentata dai tatuaggi.

Chi non ha un tatuaggio?
Ebbene sì, spostamento di priorità avvenuto: in fondo, chi non ha un tatuaggio? Visibile ai più, o invisibile che sia (e allora ecco i contorcimenti per mostrare agli amici “l’ultimo che mi sono fatto”), il tatuaggio ad aghi è quasi divenuto una prassi. E le mosche bianche che, testardamente, insistono a dire “no grazie”, vengono guardate con circospezione, e devono subire sfiancanti domande. “Ma nemmeno uno piccolo piccolo? Una coccinella? Una farfallina alla Belen?”.

Gli italiani i più tatuati d’Europa
In Europa, sono proprio gli italiani i più tatuati. Si calcola (in difetto) che siano più di un milione e mezzo le persone con almeno un tatuaggio, e la passione è sorprendentemente precoce (circa il 7,5 per cento del totale è composto da ragazzi fra i 12 e i 18 anni).

E vai con l’opzione “via di fuga”
Il mercato cresce, e se una volta le perplessità erano sul “per sempre” che accompagnava una scelta del genere, ora c’è anche l’alibi del pronto rimedio, con il laser che cancella le tracce di quel tribale fatto in coppia (e ora la coppia è scoppiata) o di quel drago che doveva essere misteriosamente minaccioso e sembra un ramarro obeso. Anche per i più romantici (o avventati?), quelli che dopo tre settimane di fidanzamento si tatuano sul bicipite il nome dell’amato o dell’amata, c’è ormai l’opzione di fuga “se mi lasci ti cancello”, nonostante il procedimento di rimozione dei pigmenti non sia semplice né velocissimo (e se vi eravate messe insieme a un Antongiulio, poi, sono dolori: con un Edo o un Leo si va via lisce).

Accessorio trasversale
Non più una prerogativa da malavitosi o da marinai, come ci insegnava il cinema tanto tempo fa: ormai il tatuaggio è trasversale, socialmente ed anagraficamente. E si vede veramente di tutto: qualche capolavoro dovuto a tatuatori molto dotati e ispirati (nonché a soggetti riceventi che ben sopportano il fastidio di lunghe sedute), ma soprattutto cuori trafitti, scorpioni come piovesse, animaletti vari, icone del nostro immaginario (se dovete tatuarvi una Marilyn scegliete la spalla, altrimenti su braccia e pancia fra 20 anni rischiate di trovarvi una irriconoscibile signora XL che tutti guarderanno aggrottando la fronte), passando per gli ovvi e vibranti simboli sportivi (squadra del cuore, calciatore-idolo, o addirittura il Colosseo come l’irriducibile romanista Claudio Amendola).

Meglio farsi accompagnare dall’interprete
Niente di nuovo sotto il sole, quanto ad idea: l’uomo di Similaun, Oetzi, vissuto tra il 3300 e il 3100 a.C., ne aveva una sessantina (molto semplici, perlopiù punti, crocette, linee). Però adesso è l’Istat a certificare che fanno parte della nostra vita e del nostro conto-spese. Per cui tutti dal tatuatore, magari facendoci accompagnare da un consulente, un amico che sa bene l’inglese, e magari pure il cinese: alcuni degli ideogrammi orientali che ci facciamo scrivere sulla pelle, affascinati dall’estetica e dalla grafia, non hanno un vero significato, o – nella peggiore delle ipotesi – ne hanno uno del tutto diverso da quello che desidereremmo. Come la ragazza che, entusiasta, mostrava il fiammante tatuaggio al titolare del ristorante cinese che le spiegava, pacatamente, che il simbolo significava più o meno “vietato entrare”.

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