Vaccini a domicilio: chi ne ha diritto e perché non si fanno

Proseguono le vaccinazioni per il Covid ma 500mila persone rischiano di restare escluse. Sono i pazienti costretti per tanti motivi a casa, e per i quali il Piano nazionale di prevenzione non ha previsto alcuna procedura. Due società scientifiche lanciano l'appello, mentre arriva un software per far dialogare le diverse banche dati

Mentre la campagna vaccinale prosegue a passo spedito (sono più di 9 milioni gli italiani immunizzati e l’età utile per la prenotazione sta man mano scendendo), c’è chi resta indietro. Sono le persone più fragili, quelli che non possono muoversi da casa e che rischiano di ammalarsi di Covid entrando in contatto con familiari e caregivers: non si tratta solo di anziani ma anche di malati cronici dimessi dall’ospedale per proseguire le cure a casa, malati oncologici, persone che hanno subito incidenti in giovane età e sono costrette a letto, pazienti in cure palliative, malati isolati da barriere architettoniche, persone con demenza. Si stima che siano dalle 400 alle 500mila. Una nicchia che, proprio per questo, rischia di restare dimenticata.

La vaccinazione e domicilio non è nel Piano nazionale

Due importanti società scientifiche che radunano tutti gli “attori” della medicina territoriale (la Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica -SItI e la Confederazione Associazioni Regionali di Distretto -CARD), hanno preparato un rapporto e scritto delle raccomandazioni perché queste persone siano raggiunte a casa e vaccinate. Quello che manca nel piano del commissario per l’emergenza Paolo Figliuolo, infatti, è la vaccinazione a domicilio. E mentre le vaccinazioni si aprono ai maturandi e presto anche ai bambini, la rete continua ad avere dei buchi, che bisogna riparare. Denuncia il dottor Paolo Da Col, uno dei coautori del rapporto e membro del centro studi Card: «La vaccinazione a domicilio non è stata considerata una priorità. Si è data grande attenzione alle RSA ma esiste un numero altrettanto alto di persone – se non di più – che vive a casa con le stesse caratteristiche di fragilità e complessità. Queste persone vanno vaccinate e non si tratta di un’impresa impossibile: i Medici di Medicina Generale italiani sono 45mila, i distretti territoriali 600. Vuol dire che ogni medico avrebbe dai 5 ai 15 pazienti da vaccinare a casa».

Perché non si vaccina a casa?

Questi pazienti sono già assistiti dal Medici di Medicina Generale: perché non sono stati ancora vaccinati? Il problema molto spesso dipende da una falla nella catena di trasmissione delle informazioni, come ci spiega la dottoressa Mara Morini, referente per le Cure primarie della Siti: «A livello locale il cuore della questione è l’assistenza domiciliare: quando un medico va al domicilio, attiva la cosiddetta assistenza domiciliare, che è prevista nell’Accordo Collettivo Nazionale dei Medici di Medicina Generale. Se però non lo fa (per fretta, dimenticanza o confidenza con il paziente), quella persona non viene riconosciuta dalle banche dati che, in teoria, dovrebbero dialogare tra loro: quella della ASL, poi quella della regione e infine quella nazionale. Pertanto è necessario, come avviene in molte regioni, che ci sia ovunque un confronto con il medico di base, che sia messo in grado di poter segnalare casi non ancora registrati, e che lo stesso possano fare un infermiere, i servizi sociali o i familiari stessi». In molte zone, poi, non tutti i medici assistono a casa: «L’emergenza ha travolto qualsiasi routine e i dottori di famiglia si sono ritrovati a fare le telefonate ai pazienti Covid oppure a eseguire le vaccinazioni stesse, entrando in affanno sulle attività» prosegue la dottoressa Morini. «È accaduto e accade anche che le famiglie non chiedano aiuto al proprio medico ma ai servizi sociali, e questi non si scambino le informazioni con la ASL». 

Il problema delle banche dati

Le difficoltà nel reperire i vaccini, almeno in una prima fase, la non maneggevolezza degli stessi e i tanti pazienti da seguire sono sicuramente alla base del ritardo nelle vaccinazioni a domicilio. «Per questo abbiamo voluto scrivere le raccomandazioni: occorre superare i problemi organizzativi e di forniture con maggiore flessibilità» spiega la dottoressa Morini: «La Regione, la ASL e i Distretti con i loro Medici di Medicina Generale devono poter dialogare. Se i sistemi informatici sono diversi (in alcune realtà non esistono neanche), può essere difficile. Occorre anche che i servizi sociali dialoghino con la ASL, e non sempre è così. Ma soprattutto, se le banche dati non vengono alimentate, cioè i dati dei pazienti inseriti, le persone non vengono censite. Purtroppo stiamo scontando vent’anni di riduzione del personale medico, a tutti i livelli, dai medici sul territorio in su: andati in pensione i dirigenti più anziani, sono stati inseriti dei giovani volenterosi che devono fronteggiare l’emergenza senza avere il supporto e la guida delle figure di maggiore esperienza. Si tratta di una mancanza di programmazione del servizio sanitario che abbiamo più volte denunciato e alla quale speriamo che le risorse europee possano dare nuovo respiro». 

Il software che aiuta i medici di base

Il Servizio Sanitario Nazionale insomma è fatto di persone, oltre che di sistemi informatici. Persone che si sono distinte nell’emergenza, ma che non bastano a salvare un sistema che ha rivelato tutta la sua fragilità, con la distruzione dei presidi territoriali a favore dei grandi ospedali, sempre più privatizzati. Ora una parte dei fondi previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) dovrebbe andare proprio alla medicina territoriale, rilanciando il ruolo del medico di base. In quest’ottica, sta per essere lanciato un software messo a punto dalla Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), insieme a Cittadinanzattiva, al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università Politecnica delle Marche e a un panel di esperti. Un lavoro di mesi che tra i suoi frutti darà proprio quello di mettere in contatto i medici con tutte le strutture della medicina territoriale, aiutandoli così a raggiungere i più fragili a casa vaccinando chi non ci è riuscito e convincendo i più restii, che sono ancora tanti. Spiega Isabella Mori, responsabile tutela di Cittadinanzattiva. «I medici sono rimasti stritolati tra le (prevedibili) pressioni di chi vuole essere immunizzato e la consapevolezza che la vulnerabilità non è solo legata all’età. L’urgenza della vaccinazione ha fatto sì che in molti casi i pazienti fragili non siano stati segnalati come prioritari. Questo software ha come obiettivo proprio ristabilire l’ordine di priorità privilegiando considerazioni di carattere sanitario, più che cronologico: perché una persona diabetica di 58 anni può essere più a rischio Covid di un 60enne senza malattie pregresse». In pratica questo algoritmo elabora le banche dati a disposizione dei Medici di Medicina Generale (e non solo), e definisce quali sono i pazienti da vaccinare per primi, perché legati a una prognosi a rischio nel caso di infezione da Covid. La priorità insomma diventa la fragilità, non più l’età. Men che meno la (tanto discussa) categoria professionale.  

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