Arriva l’infermiere di parrocchia

Aiutare i caregiver, i malati cronici, le persone con Alzheimer e le famiglie con disabili: il progetto sperimentale di collaborazione tra Asl e diocesi vuole colmare le falle della Sanità pubblica

Arriva l’infermiere di parrocchia (o meglio, una sperimentazione che fa perno attorno a questa figura). Si tratta di un progetto pilota che sta per partire in tre zone d’Italia. Si comincerà in autunno e a Roma, nel 40 per cento del territorio metropolitano, con un bacino di utenza di oltre un milione di assistiti. Poi si aggiungeranno le aree della diocesi di Alba (in Piemonte) e della diocesi di Tricarico (in Basilicata). L’obbiettivo? “Intercettare i bisogni dei cittadini più deboli ed emarginati, chi soffre di malattie croniche invalidanti o terminali, le persone e le famiglie lasciate sole”. Parliamo quindi di caregiver, malati cronici, persone con Alzheimer, famiglie con disabili. Situazioni di fragilità e criticità esasperate dai cambiamenti della Sanità pubblica, con il calo degli investimenti e la iper-specializzazione degli ospedali.

La sanità sta cambiando e cambiano i bisogni

“In Italia i modelli di sanità sono in fase di cambiamento” spiega don Massimo Angelelli, responsabile dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, co-firmatario dell’intesa. “C’è una forte contrazione degli investimenti da parte dello Stato, le strutture sanitarie stanno diminuendo e si stanno specializzando. Con pochi giorni di degenza si fa un intervento, seguito da un momento breve di cura. Il paziente viene rispedito subito a casa. Non sempre sul territorio esiste una rete di sostegno e di continuità dell’assistenza. Spesso le famiglie si trovano sole ad affrontare tante realtà di sofferenza e di malattia. In contemporanea sta mutando anche il tessuto sociale. Le prossime emergenze saranno le ‘cronicità’, cioè le malattie che accompagnano un tratto lungo dell’esistenza e che non hanno bisogno di trattamenti ospedalieri, ma vengono vissute a domicilio. Basta pensare all’Alzheimer. Allora – ecco il cuore del progetto – abbiamo immaginato la parrocchia come un luogo di incontro tra queste necessità e il Servizio sanitario nazionale. Abbiamo pensato ad una figura: un infermiere di comunità in parrocchia o, più brevemente, un infermiere di parrocchia, che possa raccogliere i bisogni che emergono dal territorio e trovare una risposta nei servizi presenti. C’è bisogno di una rete di sostegno, in maniera tale che non si generi una nuova ‘cultura dello scarto’. La risposta da dare è un modello sussidiario in cui la parrocchia non si sostituisce allo Stato. L’infermiere di parrocchia non eroga prestazioni e non crea un ambulatorio. È uno dei pilastri di una rete sociale di sostegno e di incontro”.

Come funziona il progetto

In concreto, dice sempre don Angelelli, “la Asl manderà nelle parrocchie aderenti un suo infermiere qualificato, che si incontrerà con un coordinatore, anche due o tre volte alla settimana. Verranno presentate tutte le necessità: per esempio in una famiglia c’è un disabile, in un’altra c’è un anziano solo, in un’altra ancora c’è una cronicità, c’è una situazione terminale magari di derivazione oncologica. A quel punto l’infermiere ipotizzerà e proporrà le soluzioni da adottare: in questa zona possiamo chiedere l’assistenza domiciliare, possiamo seguire questo percorso di screening, possiamo mettere in campo queste risorse… Una volta attivati i servizi più adatti, la situazione delle persone prese in carico sarà costantemente monitorata”.

I dubbi

Funzionerà? Si tapperanno le falle esistenti, almeno in parte? Oppure questa iniziativa tamponerà qualche emergenza e sarà la scusa per non affrontare i mali del sistema pubblico? Le prime opinioni che circolano in rete non sono positive. “Non ci credo – riporta un commento sul portale quotidianosanità.it. Da quando sono una professione ecclesiastica?”. Un altro ironizza: “E il medico di parrocchia? Perché queste discriminazioni? “. Un altro ancora: “Amen”. I promotori rispondono dando una serie di chiarimenti, per mettere meglio a fuoco il progetto. E sottolineano: “Si vuole combattere la ‘cultura dello scarto’, attraverso un metodo sussidiario di azione pubblico-privato”.

Le parrocchie individuano le famiglie con problemi

Nella capitale, l’apripista, l’iniziativa è frutto dell’accordo raggiunto dopo mesi di dialogo tra la Asl Roma 1 e l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, struttura della Conferenza episcopale italiana. “Il progetto – spiegano dall’Azienda sanitaria – intende sperimentare la presenza di un infermiere di comunità inviato dall’Asl nelle parrocchie coinvolte. La rete di contatti e relazioni sociali delle chiese territoriali, tramite questa figura, verrà messa a disposizione del Servizio sanitario nazionale per far emergere i bisogni e le necessità della popolazione. Un referente pastorale della salute raccoglierà istanze e necessità di persone e famiglie e condividerà i dati con l’infermiere di parrocchia, che si incaricherà di attivare procedure e servizi necessari per soddisfare le richieste e i bisogni. Le risorse umane ed economiche – viene precisato  – sono quelle di cui già si dispone”.

L’infermiere non sostituirà la Asl

Il direttore generale, Angelo Tanese, rimarca: “Non si tratta di un servizio sanitario aggiuntivo o sostitutivo del servizio sanitario pubblico, né di un ambulatorio infermieristico della parrocchia, né tantomeno di un’organizzazione della funzione assistenziale che privilegia le comunità cattoliche rispetto ad altri ‘luoghi’ di aggregazione sociale, religiosi e non. La missione di un’Asl è quella di rispondere ai bisogni di salute della popolazione secondo principi di equità, universalità e rispetto del diritto alla tutela della salute, sancito anche dalla Costituzione. Ciò che si vuole ottenere – spiega – è il valore aggiunto di una stretta collaborazione pubblico-privato tra servizio sanitario locale e diocesi, in una logica di sussidiarietà, per realizzare un modello di collaborazione replicabile in altre realtà e che produca un miglioramento dell’accesso ai servizi, dell’appropriatezza del ricorso agli strumenti diagnostici e terapeutici, dell’individuazione precoce delle condizioni di fragilità, delle relazioni con le famiglie e i caregiver nella gestione dei problemi di salute”.

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