disturbi alimentari

Disordini alimentari: al di là di anoressia e bulimia

Se anoressia e bulimia sono gli estremi di una scala dei disturbi del comportamento alimentare, cosa c'è nel mezzo? Lo abbiamo chiesto alla psicologa che si occupa di disordini alimentari, che ci ha spiegato come individuare le situazioni non patologiche

Bulimia e anoressia sono state definite le sostitute dell’isteria nervosa (scomparsa dai manuali diagnostici dei disturbi psichici oltre 30 anni fa) dei giorni nostri, a causa della loro diffusione.

Mangiare troppo e mangiare troppo poco sono gli estremi di tutta una serie di disturbi alimentari che ogni anno colpiscono centinaia di persone giovani e meno giovani, in prevalenza di sesso femminile: le statistiche parlano di un tasso di incidenza pari al 10% della popolazione italiana, anche se il dato non comprende le persone che non chiedono aiuto ai centri specializzati.

Ma al di là delle classificazioni ben definite, tipo anoressia e bulimia, ci chiediamo quali altri disordini siano compresi sotto l’etichetta di “disturbi alimentari”.

Secondo i criteri diagnostici del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, ovvero il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali pubblicato dall’American Psychological Association), oltre all’Anoressia Nervosa ed alla Bulimia Nervosa vengono individuati:

– il disturbo da alimentazione incontrollata, che si presenta con episodi di abbuffate senza mostrare comportamenti compensatori per ridurre il peso;

– il disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato, che include quei disturbi che non soddisfano completamente i criteri di alcun disturbo dell’alimentazione specifico, pur manifestandosi con quadri clinici significativi quanto a gravità e difficoltà di trattamento.

«È significativo notare come i dati epidemiologici raccolti in alcuni centri clinici specializzati, evidenzino che al 50-70% dei pazienti siano diagnosticati disturbi alimentari non specifici» spiega la dottoressa Irene Sabelli, Psicologa di Bologna.

Eppure tutti possiamo incorrere in disturbi alimentari, senza per questo essere affetti da gravi patologie. Spinti da inni alla magrezza, incitazioni alla dieta, ammirazioni di corpi filiformi o frustrati per qualche motivo, potremmo (e qui usiamo il condizionale) mangiare per compensazione o mangiare troppo poco per paura di non essere all’altezza dei modelli propinatici.

Si può individuare, allora, una linea di confine tra la patologia e la normalità?

«Oltre che dalla diagnosi, il confine tra situazione patologica e non-patologica è dato dal benessere e della qualità della vita delle persone – spiega la psicologa – Nelle persone che soffrono di disturbi alimentari, un aspetto importante da considerare è come si vedono, cioè l’immagine che hanno del proprio corpo, oltre al rapporto con il cibo, naturalmente».

«Come viviamo e ci sentiamo nel nostro corpo è fortemente in relazione con la nostra identità. Inoltre il corpo è il tramite immediato con cui entriamo in contatto col mondo, è come un “campo di indagine” sia su noi stessi, che sui nostri rapporti con gli altri (ed anche il cibo è un importante mezzo di relazione con gli altri…)» aggiunge l’esperta.

«Una donna può vivere rivolgendo un’attenzione costante al peso ed alla forma del suo corpo, ma questo di per sé, non fa patologia – prosegue la psicologa – Ciò che fa scattare l’allarme è da quanto tempo e con quale frequenza questa donna mette in atto comportamenti di controllo del peso e quanto questi comportamenti arrecano danno alla sua vita: si può così valutare quanto quella situazione è a rischio o se si sta manifestando un vero e proprio disturbo alimentare».

Un altro aspetto importante che ci aiuta a discriminare fra patologia e situazione non patologica è quanto una persona si sente bene (o male) esclusivamente in relazione alla forma del suo corpo e quanto fa dipendere da questo la propria autostima.

«Se l’attenzione alla forma del mio corpo diventa la motivazione principale di molti miei comportamenti, in seguito ai quali trascuro altri aspetti della mia vita come la famiglia, il lavoro o le mie relazioni (magari non vado più a mangiare fuori) o, ancora, la mia salute, quella è probabile che diventi una situazione di disagio clinicamente significativa» precisa Irene Sabelli.

Comprendiamo quindi che la linea di confine fra patologia e comportamento sano, al di là della diagnosi specifica, è il disagio della persona, quanto compromette la sua vita, e le risorse che la persona stessa riesce a mettere in campo per farvi fronte.

Ci possono essere quindi dei disturbi alimentari indefinibili che colpiscono molte persone senza che queste siano definibili anoressiche o bulimiche tout-court.

«Statisticamente vengono classificati come disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati, cioè un disturbo clinicamente significativo i cui sintomi però non soddisfano i criteri né per la diagnosi dell’anoressia nervosa, né per quella di bulimia nervosa» spiega la dottoressa Sabelli.

In ambito scientifico si parla da alcuni anni di “ipotesi trans-diagnostica”: alcuni studiosi (gruppo di lavoro di Fairburn che ha validato la terapia cognitivo comportamentale per anoressia e bulimia) stanno lavorando infatti sull’ipotesi che dietro questi due disturbi ci siano meccanismi psicologici comuni che poi possono sfociare in quadri sintomatologici anche diversi ma riferibili allo stesso tipo di disturbo.

Si può quindi parlare di episodi isolati di anoressia o di bulimia e non di malattia cronica?

«Certo, è facile che tali episodi possano capitare mentre il disturbo sta insorgendo; ma può anche capitare che una persona passi una fase per così dire “disturbata”, o comunque di marcato disagio, e poi non sviluppi subito un disturbo conclamato, cosa che può avvenire anche dopo qualche anno, magari in risposta ad un momento di vita stressante. O mai» risponde la dottoressa Sabelli.

«Si tratta di situazioni di confine dove può esserci un disagio più o meno forte a cui è molto importante prestare attenzione. È importante infatti valutare di rivolgersi ad uno specialista (psicologo, psicoterapeuta, nutrizionista, medico) per capire di che cosa si tratta: ci sono determinati momenti di vita, come l’adolescenza, in cui si è più vulnerabili a questi disturbi – prosegue l’esperta – La presenza inoltre di un episodio di questo tipo può essere significativo della vulnerabilità di quella persona ad un disturbo di disordine alimentare, e non andrebbe mai sottovalutato».

La terapia più indicata è la psicoterapia: deve essere affiancata alle visite di un medico e di un nutrizionista in caso ci sia una situazione di sottopeso. Nelle forme più gravi, infatti, le persone che soffrono di disordini alimentari rischiano la vita, e non solo a causa del sottopeso, ma anche a causa degli squilibri elettrolitici derivanti dalle frequenti condotte di espulsione come il vomito o l’uso di lassativi.

«In base alla gravità del disturbo sono consigliabili anche terapie farmacologiche, in affiancamento alla psicoterapia, che è il percorso tramite il quale la persona potrà poi maturare la capacità di non ricadere nel disturbo. Le psicoterapie più validate a livello scientifico per curare i disturbi del comportamento alimentare sono quelle di matrice cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale» precisa la psicologa.

L’ideale sarebbe una psicoterapia ad approccio integrato, differenziabile a seconda delle diverse fasi della malattia, e che coinvolga anche le figure significative per il paziente come familiari e partner.

All’inizio del trattamento è infatti più risolutivo un approccio cognitivo-comportamentale, utile per stabilizzare i comportamenti alimentari, quindi il peso ed anche i comportamenti e le convinzioni “disfunzionali” che mantengono il disturbo, per poi passare a lavorare maggiormente sulle problematiche personali e relazionali collegate più al “perché” quella persona, proprio in quel determinato momento di vita si è trovata a soffrire di un disturbo alimentare.

Andando al di là delle varie teorie l’obiettivo della psicoterapia dovrebbe comunque essere quello di consentire alla persona di trarre dal lavoro psicoterapeutico le risorse per “sciogliere” i sintomi ed il malessere, imparando un modo di affrontare la realtà e di leggere se stesso più costruttivo e flessibile.

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