Reddito di libertà: pochi soldi per poche donne

Il Reddito di libertà per le donne vittime di violenza rischia di essere poco utile, oltre che discriminatorio. Troppo pochi i 3 milioni di euro stanziati e discutibile il criterio di assegnazione, cioè essere stata seguita da un centro antiviolenza. Non tutti i centri rispettano i requisiti e non tutte le donne maltrattate vogliono o possono andarci

Il Reddito di Libertà è un provvedimento molto giovane, ma non per questo gli si può perdonare di essere poco efficace: è stato introdotto con il governo Conte II nel decreto Rilancio e trova realizzazione concreta dall’8 novembre 2021, data della pubblicazione della circolare Inps n.166 che ne illustra l’applicazione. In pratica la circolare stabilisce l’importo (400 euro al massimo per 12 mesi) e detta i requisiti per l’accesso, ovvero che la donna sia stata seguita da un centro antiviolenza. E qui sta il problema: la torta da spartire (3 milioni di euro in tutto) è molto piccola e non tutte le donne che avrebbero bisogno di un sostegno economico possono o vogliono riferirsi a un centro antiviolenza. Moltissime quindi restano escluse.

Troppo pochi i soldi per troppe donne

In base agli ultimi dati Istat del 2020, le donne accolte nei centri antiviolenza sono circa 47mila. Lo stesso Istat però rivela che il numero è sicuramente superiore perché si tratta comunque di dati disaggregati, cioè che si riferiscono solo ai centri autorizzati dalle Regioni: in Italia ce ne sono molti altri. Considerando quindi “al ribasso” solo le 47mila donne, vuol dire che solo in 625, tra queste, potrebbero accedere ai fondi. Un numero irrisorio. E poi ci sono tutte le altre, quelle per esempio che denunciano ma scelgono di non chiedere l’aiuto di un centro antiviolenza, perché magari hanno un luogo in cui trasferirsi con i figli, o il compagno è stato arrestato in flagranza, o non sono strutturate mentalmente per affrontare un percorso simile, oppure pensano di non aver bisogno di supporto psicologico oppure, ancora, vivono in una regione dove di centri ce ne sono molto pochi, con pochi servizi, per esempio per i bambini. Le motivazioni sono molte, come molte, moltissime sono le donne che sfuggono ai censimenti, sempre difficili quando si tratta di violenza. E poi ci sono i centri, variegati e anch’essi pieni di sfumature, difficili da omologare quanto a criteri e requisiti: la qualità e distribuzione dei centri infatti varia molto da regione e regione, come rivela l’ultimo rapporto Istat. 

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In quale città un affitto costa 400 euro?

L’avvocata Cristiana Coviello, impegnata da sempre nella difesa delle donne maltrattate, è molto chiara: «La misura di per sé rappresenta un passo avanti e, come sostiene anche la Commissione Femminicidio, è un segnale. Ma è evidente che i soldi stanziati non bastano: non bastano neanche per le donne che sono seguite dai centri. E poi, anche accedendo ai 400 euro al mese, come si può rendersi autonome con questa cifra? Ricordiamoci che la violenza non è solo fisica ma anche economica: molto spesso le donne sono private di risorse dai compagni violenti e la maggior parte di loro ha figli. Anche cumulando il reddito di cittadinanza, in quale città esistono affitti di 400 euro?».

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Restano escluse le donne che non bussano ai centri 

La misura è discriminatoria, e non solo perché i soldi sono pochi, ma anche perché è rivolta esclusivamente alle donne che siano state seguite da un centro antiviolenza. Il requisito per accedere ai fondi infatti è aver seguito un percorso di emancipazione e autonomia presso una di queste realtà, attestato dal centro stesso. «Il lavoro dei centri è preziosissimo e questa misura lo riconosce, ma da avvocata ritengo un errore dare loro il potere di certificare l’essere vittima di violenza» spiega l’avvocata Coviello. «In Italia i centri sono privati, spesso associazioni o cooperative. Nessuno è uguale all’altro quanto a formazione degli operatori e offerta di servizi, alcuni non hanno neanche i requisiti minimi. Insomma non tutti sono qualificati, non è corretto quindi a mio parere che abbiano questo potere. Sarebbe più equo invece – visto i pochi soldi a disposizione – che la certificazione della violenza provenisse dal sistema giudiziario: non può essere il centro a documentarla ma la donna deve aver attivato un procedimento penale che poi sfoci in una verità giudiziaria. Il criterio insomma va rivisto, sulla scia per esempio dell’esperienza del Fondo per le vittime di violenza sessuale che prevede come requisito d’accesso una sentenza passata in giudicato: ovviamente neanche questo va bene perché i tempi del processo sono sempre troppo lunghi, ma il criterio deve diventare giuridico». 

Il problema come sempre comunque sta a monte: spesso le donne non denunciano proprio perché non hanno autonomia economica. È lì la radice di tutto: occorre affermare una cultura della parità a ogni livello: serve una politica del lavoro e del welfare che permetta alle donne di scegliere liberamente. L’obiettivo dev’essere un contesto sociale in cui il Reddito di Libertà non sia più necessario.

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