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Cosa cambia per i precari con il decreto dignità

  • 31 10 2018

Le norme che entrano in vigore il primo novembre riducono sia il numero di rinnovi sia la durata massima dei contratti a termine. L’obiettivo è incentivare le aziende a stabilizzare i dipendenti. Ma gli effetti si vedranno soltanto a gennaio

Entra in vigore il 1° novembre il “Decreto dignità”: con l’intento di dare una stretta al precariato modifica le norme precedenti sul lavoro a termine, Jobs Act compreso. Le novità principali sono 3: la durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato scende da 36 a 24 mesi; il numero dei rinnovi possibili passa da 5 a 4 in 2 anni; compare l’obbligo, per il datore, di indicare dopo i primi 12 mesi una causale di lavoro specifica per giustificare il rinnovo del rapporto. Ecco come potrebbero cambiare le cose.

Decreto dignità: chi è interessato dal provvedimento?

Il Decreto dignità, approvato in agosto, ha già investito molti dei 3 milioni di interinali o a tempo determinato esistenti, impiegati soprattutto nei servizi e nelle attività cosiddette “cicliche” come ristorazione, logistica e commercio (altri 2 settori ad alta stagionalità, turismo e agricoltura, continuano a poter essere coperti con i voucher).

Le aziende avevano a disposizione alcuni mesi per adeguarsi alle novità, in cui in teoria potevano applicare le vecchie regole. «Ma il periodo “di mezzo” ha generato problemi di interpretazione su rinnovi e proroghe» nota Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro. E molte imprese, per non correre rischi, hanno preferito non rinnovare numerosi contratti. In 100 sono “scaduti” alla Clara, azienda rifiuti del Ferrarese, in 80 a Milano Ristorazione, in 55 alla società del settore trasporti Tua di Pescara.

E al Sud alcune vertenze stanno diventando esplosive. È il caso della Teleperformance di Taranto, multinazionale dei call center. «Hanno sostituito chi era vicino al quinto rinnovo, ora vietato, o ai fatidici 24 mesi» rivela Daniele Simon della Nidil-Cgil. Per adesso è toccato a 60 persone, ma rischiano in 300. Del primo gruppo fa parte Simona, 26 anni: «Sono iscritta al sindacato e aspetto un figlio: ero in cima alla lista dei nomi da far fuori» dice. «Sono fortunata perché mio marito ha un lavoro stabile, ma altri mantenevano la famiglia con rinnovi di 2-3 mesi per volta».

Aumenteranno gli assunti a tempo indeterminato?

Su parte dei “vecchi” tempi determinati, insomma, il decreto sembra aver sortito l’effetto opposto. Accadrà anche ai neoassunti? Difficile dirlo, ma Cgil, Cisl e Uil ipotizzano che il trend difficilmente muterà. E in una nota al ministro del Lavoro Luigi Di Maio hanno segnalato il rischio che «aumenti il turn over del personale» più che la sua stabilizzazione.

E cosa succederà quando si avvicineranno alla scadenza dei primi 12 mesi, dopo i quali scatta l’obbligo di causale? «Sostituzione ferie a parte, la legge è vaga su altre causali, dunque il rischio di contenziosi è alto» aggiunge De Luca. Possibile, quindi, che vengano sostituiti a loro volta. Senza contare i problemi connessi, come la riforma dei centri per l’impiego da avviare e il nodo dei risarcimenti per i licenziamenti illegittimi (vedi sotto).

Quando si saprà se salirà l’occupazione?

«Combattere la precarietà è sacrosanto» ragiona Daniel Zanda, segretario nazionale Cisl-Felsa. «Però il governo è intervenuto su formule che, seppur in modo non sempre limpido, garantivano un minimo di continuità lavorativa. Spesso lo sfruttamento risiede nelle finte partite Iva, nei finti tirocini, nelle cooperative ai limiti della legge».

Di Maio ha annunciato che monitorerà la situazione e ha previsto incentivi per spingere le imprese a trasformare i precari in lavoratori stabili. «Troppo poco per la crescita» ha commentato Confindustria. Ma solo i dati Istat di gennaio 2019, che conterranno il saldo degli occupati di novembre, diranno chi ha ragione.

E IN CASO DI LICENZIAMENTO?

Quando una sentenza stabilisce che un lavoratore è stato licenziato senza giusta causa, non può essere un meccanismo rigido a calcolare il risarcimento. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, che ha assestato un colpo al Jobs Act del 2015 nella parte che riguarda i titolari del nuovo contratto a tutele crescenti. Ma i giudici, così, sconfessano anche il Decreto dignità, che ha alzato il numero di mensilità da versare all’ex lavoratore, però senza cambiare la norma. Insomma, l’articolo 18 non tornerà, ma il risarcimento per i licenziamenti illegittimi da oggi si valuterà caso per caso, a seconda del lavoro e della situazione specifica.

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