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Lo smart working penalizza le donne?

Nell’ultimo anno e mezzo lo smart working è stato stressante perché forzato. Adesso che si discute sulle formule per tornare in ufficio, abbiamo l’occasione di ridisegnare il nostro lavoro in modo davvero agile. Qui tre esperte ci spiegano come coglierla

C’è chi allo smart working sta dicendo addio, come l’85% dei dipendenti della Pubblica amministrazione che da questo mese il ministro Renato Brunetta rivuole negli uffici. C’è poi chi si sta interrogando sul nuovo smart working in costruzione nella propria azienda. Intanto noi donne, dopo averlo sperimentato forzosamente nell’ultimo anno e mezzo, ci chiediamo se sia un alleato o un nemico. Una bocciatura arriva dall’Economist con l’articolo Le donne hanno bisogno dell’ufficio. Due, secondo l’autorevole settimanale inglese, le ragioni. La prima: se stanno sempre a casa e lavorano occupandosi anche dei figli, rischiano di avere minori stipendi e opportunità di carriera. La seconda: restano tagliate fuori da quei processi di socializzazione e creatività naturali in presenza ma impraticabili su Zoom.

Lo smart working ci butterebbe quindi ai margini di un mercato del lavoro dove già non abbiamo vita facile, visto che – dicono gli ultimi dati Istat – su 80.000 persone che hanno perso il posto ad agosto quasi 9 su 10 sono donne. Ma davvero il lavoro agile è una trappola o può ancora rivelarsi un’opportunità?

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Lo smart working non ha influito sulla produttività

Finora lo smart working ci ha stressato, ma non ha influito sulla produttività. Per rispondere cerchiamo di capire perché questa formula ci è spesso apparsa ostile. «L’equivoco di fondo è stato chiamare smart working, che è una modalità organizzativa con precisi presupposti e finalità, quello che era lavoro da remoto forzato» spiega Alessandra Gangai, ricercatrice dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. Va poi fatta una distinzione: «Ci sono state due fasi. Nella prima si stava tutti barricati in casa, le scuole erano chiuse e le donne si sono ritrovate a gestire l’ingestibile: il carico domestico e quello professionale insieme. Non è quindi lo smart working che non ha funzionato, ma il contesto in cui si è stati costretti ad applicarlo. Nella seconda fase, con la riapertura delle scuole, la situazione in parte è migliorata» precisa Ivana Pais, professoressa di Sociologia economica all’università Cattolica di Milano.


Con lo smart working non importano le ore lavorate ma i risultati raggiunti: le donne, che fanno meno straordinari, non sono penalizzate come un tempo


I dati fanno riflettere: «A livello personale, le donne hanno vissuto più criticità degli uomini: nel 22% dei casi hanno provato ansia o paura (contro il 13% dei loro colleghi) e nel 21% un senso di sconforto (sempre contro il 13%)» rileva Alessandra Gangai. «Se passiamo però alle difficoltà sul fronte professionale, l’uso delle tecnologie, non ci sono differenze sostanziali tra i generi. E neppure nei risultati lavorativi».

In sintesi: eravamo più stressate dei colleghi, ma abbiamo prodotto quanto loro. Questo può farci onore ma deve farci anche prendere consapevolezza del rischio di burnout: per evitare l’esaurimento, con la conseguente tentazione di mollare il lavoro, dobbiamo trovare la formula che ci garantisca un maggior equilibrio.

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Ci spinge a cercare vantaggi comuni

Dato questo bagaglio di fatica, come rispondere al desiderio di più della metà delle lavoratrici che ora vorrebbero lo smart working ma in modo “ibrido”, con giorni in ufficio e altri fuori (vedi sotto)? «Per costruirlo partiamo dai pilastri della legge del 2017 sul lavoro agile: la libera scelta, la reversibilità e il lavorare per obiettivi» spiega Arianna Visentini, ceo di Variazioni, società di consulenza che accompagna organizzazioni pubbliche e private nell’adozione dello smart working. «Il lavoro agile deve essere frutto di un accordo tra le parti, dipendente e azienda, poi si decide di rinnovarlo o no. La ricerca di interessi convergenti è uno snodo cruciale che può portare a situazioni in cui tutti ci guadagnano».

Donne ufficio lavoro

E, per guadagnarci «è utile puntare ad alleanze con i colleghi per costruire modelli di lavoro agile funzionali al team» dice Ivana Pais. «In pandemia tanti uomini hanno sperimentato lo smart working e si è diffusa anche tra loro una maggiore sensibilità rispetto ai suoi benefici». Lo conferma Arianna Visentini, che di nuovi modelli organizzativi ha parlato al festival “Maps for future” promosso da Niuko, società di formazione di Confindustria Vicenza. «Seguiamo aziende che hanno applicato il lavoro agile e notiamo che gli uomini lo chiedono anche per stare di più accanto alla famiglia».

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Lo smart working stimola la parità salariale

Dalle ricerche della società Variazioni emerge un risultato che affossa i timori dell’Economist: «Lo smart working è un equalizzatore retributivo, riduce cioè il gap salariale tra uomini e donne» assicura Arianna Visentini. Com’è possibile? «Fino a ieri in Italia la produttività oraria era bassa perché molti puntavano a fare lo straordinario che era una parte cospicua dello stipendio. Questa logica favoriva gli uomini, che più facilmente si fermavano a lungo in ufficio. Con lo smart working non importa quante ore lavoro, ma i risultati che raggiungo, quindi le donne non sono penalizzate come un tempo». Si tratta di una rivoluzione organizzativa e spetta alla singola azienda trovare la formula più funzionale. «I manager devono promuovere la formazione dei dipendenti e dotarli degli strumenti tecnologici necessari. Tutti poi devono imparare a impostare il lavoro per obiettivi» dice Visentini.

Lo smart working aiuta le neomamme

Nella scelta se aderire o no allo smart working entrano in gioco tanti fattori. «C’è chi trova l’ufficio più stimolante e chi preferisce lavorare in tranquillità a casa. Penso comunque che lo smart working sia un’opportunità per tante, e per le neomamme in particolare – spesso costrette al part time, se non al licenziamento – perché potrebbero conciliare meglio le loro esigenze professionali con la gestione dei figli» osserva Gangai.

Possono esserci casi in cui frequentare molto l’ufficio è però consigliabile. «Sono favorevole allo smart working, ma preoccupata per i giovani: quando entri in un’azienda devi impararne la cultura, è un apprendimento non tecnico ma informale, realizzabile solo in presenza» spiega Ivana Pais. «Per le giovani donne poi c’è un’altra ragione: ho 45 anni e la mia generazione ha sofferto molto la mancanza di role model. Oggi le abbiamo e sarebbe un peccato se le giovani non le frequentassero il più possibile».

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Lo smart working offre più possibilità d’impiego

C’è poi un altro aspetto da considerare. Le donne di solito accettano un posto se è vicino a casa così da seguire i figli piccoli o i genitori anziani. «Con lo smart working si aprono nuove possibilità» dice Visentini. «Si può più facilmente scegliere un impiego anche lontano perché il pendolarismo si ridurrebbe a pochi giorni». Ma attenzione alla scelta dei luoghi. «Faccio una battaglia per cui il lavoro fuori dall’azienda non debba essere solo lavoro dalla propria abitazioneò Non posso pensare che le donne si richiudano tra le mura domestiche» dice la professoressa Pais. «Per evitare un simile boomerang ci sono formule come il coworking di prossimità che non obbliga a spostamenti snervanti, ma offre preziosi momenti di socializzazione. Luoghi così sono uno dei tasselli di cui immagino fatto il futuro desiderabile».

Smart working: alle italiane piace “ibrido”

Secondo la ricerca appena pubblicata Future of work Italia 2021 di Linkedin quasi un professionista italiano su 2 nel nuovo scenario lavorativo preferisce un modello di lavoro “ibrido”, ovvero un mix tra casa e ufficio. A chiederlo sono soprattutto le donne: 52,9% contro il 41,9% degli uomini. Il 6,7% dei professionisti interpellati dichiara di aver già lasciato il lavoro perché gli è stato chiesto di tornare in ufficio a tempo pieno. Lo ha fatto per vari motivi, tra cui il desiderio di prendersi meglio cura dei figli o dei parenti anziani.

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