Smartworking: perché non si fa?

In futuro coinvolgerà 5 milioni di persone. Ma per ora il lavoro agile fatica ad affermarsi nelle aziende, soprattutto nelle piccole medie imprese. Anche se è (quasi) legge. Ed è dimostrato che aumenta produttività e benessere dei dipendenti

Per alcuni è la svolta e la sfida del futuro. Per altri è una modalità di lavoro mai decollata e già sorpassata. Per altri ancora un miraggio, perché significherebbe (almeno) avere un impiego. Benvenuti nel mondo del lavoro smart, che letteralmente sarebbe “intelligente” ma in Italia è tradotto con l’aggettivo “agile”. Difficile darne una definizione unica, perché lo smartworking è una realtà a molte facce: può voler dire lavorare fuori dall’ufficio per 2 giorni alla settimana o 4 volte al mese. Significa gestire in autonomia gli orari e azzerare i tempi di trasferta, o solo rinunciare alla scrivania fissa in ufficio per una postazione di coworking a rotazione. «Di certo, sono già molte le aziende che l’hanno sperimentato negli ultimi anni, ancora prima del disegno di legge sul lavoro agile appena approvato anche alla Camera» dice Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smartworking del Politecnico di Milano. «Secondo la nostra ultima indagine, è un fenomeno diffuso nel 30% delle grandi aziende e nel 5% delle piccole-medie attività».

Quali sono i timori delle imprese

I dati sono incoraggianti, al punto che si stima che il numero di lavoratori interessati potrebbe arrivare a 5 milioni, circa il 23% del totale. Ma il testo del disegno di legge approvato alla Camera (che dichiara che l’agilità aumenta la produttività e serve per migliorare la conciliazione vita privata-professionale) non basta a rendere il lavoro smart un diritto o una chance per tutti. Né ci riescono l’entusiasmo delle realtà dove è già a pieno regime (per citarne alcune, da Banca Intesa a Zurich, da Microsoft a Cisco, da Sisal a Subito.it) o la disponibilità di strumenti per essere sempre connessi (telefoni, tablet, pc).

Le resistenze da parte delle imprese italiane sono ancora tante, più di carattere culturale che di budget. «A differenza degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti, dove si lavora per obiettivi e c’è fiducia tra capi e collaboratori, da noi prevale ancora la mentalità del controllo, del comando, della presenza in ufficio» dice Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia. Per fare smartworking serve quindi una nuova visione a tutti i livelli: dalla miglior capacità di delega dei manager alla responsabilizzazione degli impiegati, che devono puntare più sui risultati e meno sul tempo trascorso alla scrivania.

«È dimostrato che il lavoro agile conviene all’azienda, alle persone e alla società» dice Fiorella Crespi del Politecnico di Milano. «È un processo che permette un risparmio e una razionalizzazione dello spazio – che già si utilizza al 60%, tra ferie, malattie e uscite – e che fa aumentare la produttività anche del 20% perché gli impiegati danno migliori performance. L’agilità è persino una leva di attrattività: la reputazione aziendale cresce e attira i giovani talenti».

Cosa cambierà con la nuova norma

Come si fa, però, a ottenere lo smartworking? È adatto a tutte le attività? «Il lavoro agile è un fenomeno già diffuso nel settore bancario, assicurativo e dei servizi, sta penetrando nella moda ma fatica ad affermarsi nel manifatturiero» dice Fiorella Crespi. La legge in discussione si applicherà solo ai contratti di lavoro subordinati. L’adesione è facoltativa, l’accordo è diretto tra dipendente-azienda, non è un obbligo per l’impresa concederlo né serve una contrattazione sindacale. Stipendio e livello non variano e non c’è bisogno di indicare una sede alternativa all’ufficio, come invece accade per il telelavoro (mai decollato in Italia, che infatti è all’ultimo posto in Europa). Vanno invece fissati orari, tutele sulla sicurezza e sulla salute, diritto alla disconnessione.

Queste regole saranno un incentivo o un deterrente alla diffusione della flessibilità? E le persone saranno pronte a farsi smart, ad allontanarsi dall’ufficio senza temere per la carriera o di sentirsi “alienate” quando lavorano a distanza? Il caso Vodafone racconta che è possibile: «Lo smartworking è un progetto partito nel 2014 dopo una fase di sperimentazione» dice Laura Grasso, responsabile della formazione in Vodafone Italia. «Oggi siamo tra le aziende con più dipendenti agili: 3.500 su 7.000 lavorano fuori ufficio 1 volta alla settimana. E i genitori possono raddoppiare le giornate al rientro dalla maternità. Il cambiamento culturale è stato forte: abbiamo fatto leva soprattutto sui manager, sulla modifica degli stili di leadership e sulla fiducia tra capo e collaboratore. I dipendenti si reputano più produttivi, l’azienda ha risparmiato 300.000 euro annuali di spese energetiche e 350 tonnellate di CO2».

Chi è il candidato ideale

Il lavoro agile sembra calzare su misura alle esigenze di vita delle donne, invece il profilo tipo dello smartworker nel 69% dei casi è un maschio, 41 enne, del Nord (e le sue caratteristiche più apprezzate sono la capacità di prevedere e risolvere i problemi e l’intelligenza organizzativa). «Ma non ne farei una questione di genere» precisa il giurista Michele Tiraboschi. «La conciliazione è un tema che riguarda tutti e l’agilità sarà il modello di impresa del futuro. Pensare allo smartworking solo come risposta ai bisogni femminili rischia di renderlo uno strumento per esternare lavoro e persone. Un boomerang».

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