In Bielorussia, dove i bambini cercano solo amore

Il racconto di una giornalista, Ilaria Prada, che ha visitato un orfanatrofio in Bielorussia. Lì i bambini cercano solo una famiglia che li ami, di qualunque tipo essa sia

Quando sento espressioni dure contro l’adozione di bambini da parte di genitori single, coppie non sposate o dello stesso sesso, penso a Kukla. “Kukla” non è il suo nome di battesimo, non l’ho mai saputo. In russo significa “bambola”. La chiamavano tutti così e lei non mi ha mai svelato come si chiamasse. In effetti, somigliava davvero ad una bambola. Aveva quattro anni, due grandi occhi verdi con interminabili ciglia nere, la carnagione bianca e rosa che la faceva sembrare di porcellana e una postura regale, sempre ritta. La conobbi in un istituto di Minsk (Bielorussia), sovvenzionato in parte da associazioni italiane di volontariato, che ospitava bambini abbandonati o maltrattati di età variabile, dai tre anni fino all’adolescenza.

Ero stata avvertita che sarei rimasta scossa dall’esperienza e così è stato. Quando mi invitarono a visitarlo, temevo di trovare un luogo triste e abbandonato. Mi sbagliavo. Non fu questo, infatti, a stringermi il cuore.

Ai bambini era stato annunciato l’arrivo degli “italiani”. Eravamo solo in due, io e un membro dell’associazione di volontariato italiana, che già conoscevano. I bambini erano in fermento, eccitatissimi da questo evento che per loro aveva il sapore della festa, ma nessuno di loro dimenticò le regole che gli erano state insegnate. Vidi Kukla piegare i propri vestiti ed impilarli, mentre i suoi compagni di stanza, bambini dai tre ai cinque anni, ponevano le proprie scarpe ordinatamente davanti al letto, sprimacciando i cuscini e raccogliendo i giocattoli sparsi. Erano puliti e ben nutriti, ma capii subito che mancava loro qualcosa di essenziale.

Mi sedetti per terra e aprii l’album che avevo portato con me, dando a ognuno di loro un pastello. Nonostante ci fosse un solo libro, si avvicinarono alle pagine colorandone ordinatamente un angolo ciascuno. Kukla, invece, si sedette sulle mie ginocchia, come se mi conoscesse da sempre. Mi prese il viso con le mani e lo voltò verso di sé.

“Neri!” urlò. “Guardate! Questa ragazza ha gli occhi neri!”.

Fu un attimo: uno sciame di bambini mi si avvicinò festante. In quel momento mi accorsi che le loro iridi avevano tutte tonalità chiare: azzurre, verdi, grigie…

Il colore dei miei occhi non era che un pretesto per avvicinarsi a me, come aveva fatto la coraggiosa Kukla e cercare di strappare uno sguardo, un sorriso o una carezza, diretti proprio a loro. Mi accorsi di un bambino, il più timido, che ci osservava in disparte. L’educatrice gli fece una carezza sulla testa, ma immediatamente si arrestò.

“Siamo affezionati a loro, ma non possiamo dimostrarglielo. Se il personale si avvicendasse  e loro perdessero il loro punto di riferimento, ne soffrirebbero” disse, come se avesse colto la mia domanda muta. Poi mi ammonì:-“Non essere troppo gentile con loro, altrimenti quando te ne andrai piangeranno”.

Fu molto difficile seguire le sue indicazioni. I bambini ci seguivano dappertutto, mentre l’educatrice ci mostrava il resto dell’istituto. Kukla stringeva le sue dita sottili intorno al mio polso. Non le diedi la mano, mi fu detto espressamente di non farlo. Cercai di non guardarla troppo frequentemente, ma sentivo i suoi grandi occhi verdi fissi su di te. Quando incontravo il suo sguardo, le sue labbra si schiudevano in un sorriso fiducioso.

Ascoltami” mi disse ad un certo punto. Non era un imperativo, ma un appello accorato. Kukla voleva che almeno io ascoltassi la sua voce, che solitamente si perdeva in mezzo a quella dei suoi tanti compagni di istituto, che le educatrici non potevano seguire singolarmente. Lo disse come se volesse comunicarmi qualcosa di molto importante.

“Se tu diventi la mia mamma, avrò anch’io gli occhi neri?”

La sua ingenua domanda di bambina, mi colpì come una freccia. Il solo fatto di averle sorriso e averla tenuta vicina, le erano stati sufficienti perché mi desiderasse come madre. Tanto bastava, visto che sua mamma, più interessata alla bottiglia che a lei, l’aveva abbandonata alla stazione ferroviaria. O forse,  immersa fra i fiumi della sbornia, l’aveva dimenticata e poi era tornata a cercarla, ma non le era stata restituita. A Kukla non importava che per lei io sarei stata una mamma single. A lei e ai bambini dell’istituto, per lo più abbandonati o maltrattati da famiglie “tradizionali”, poco interessava che a dare loro amore fosse un genitore single, una coppia dello stesso sesso o una “tradizionale” con o senza fede al dito, ma più amorevole della loro. Erano puliti, nutriti ed accuditi, ma nessuno di loro godeva di affetto esclusivo, abituati com’erano ad essere parte di un gruppo. Qualsiasi gesto di interesse veniva quindi percepito come la speranza di una nuova vita in una famiglia tutta loro. I bisogni primari erano soddisfatti, ma la fame d’amore no.

Per questo l’educatrice ci invitò a salutarli velocemente per non turbarli. Disse loro che forse saremmo tornati.

“Dobbiamo dare loro una speranza che vi rivedranno, senza dire bugie”

La speranza era ciò che animava gli occhi vivaci di quei bambini. I più grandi, invece, sembravano averla già persa. Nessuno degli adolescenti, infatti, ci aveva accolti o seguiti. Si limitavano a guardarci con disillusione.

Per questo, quando sento opinioni risolutamente contrarie all’adozione da parte di genitori single o coppie omosessuali, mi ricordo di Kukla e penso che ogni forma d’amore sia importante.

Ilaria Prada 

 

Riproduzione riservata