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I racconti delle ginnaste della squadra di ginnastica ritmica riaccendono i riflettori sugli abusi, psicologici e fisici, che a ogni livello macchiano il mondo dello sport. Adesso serve giustizia, per loro e per tutte le giovani atlete che hanno il coraggio di denunciare

LA PAROLA ABUSO È UN CAMALEONTE: si adatta a tante forme, tutte brutte. Declinata sullo sport, racconta storie grigie, finite sotto il tappeto dell’omertà come polvere che nessuno vuole spazzare via. Storie che parlano di violenza fisica ma anche di sottomissione psicologica, sevizie emotive, bullismo dei compagni di squadra, negligenze sadiche dell’istruttore.

Lo scandalo della ginnastica ritmica

Abuso è prendere a schiaffi una bimba di 8 anni se ha fatto male un esercizio. O dirle: «Dove credi di andare con quel sedere?». O magari elogiarla se non mangia. Come è successo a Francesca, che nasconde la sua verità dietro un nome finto perché la vergogna non si cancella. Ma ora, a 18 anni, «grazie a Nina, Anna e Giulia», ha trovato il coraggio di denunciare. Anche lei è una delle ragazzine della ritmica spinte fuori strada dal sistema tossico delle allenatrici e dei loro metodi sadici, venuti a galla nelle scorse settimane grazie alle denunce delle ex Farfalle Nina Corradini, Anna Basta e Giulia Galtarossa, che hanno portato al commissaria- mento dell’accademia di Desio.

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L’incubo della bilancia

Uno scandalo, salutato da molti come il #MeToo dello sport italiano che ha aperto il vaso di Pandora degli abusi psicologici e fisici portati avanti indiscriminatamente sulla pelle delle campionesse come di tante bambine senza speranze di gloria. «Era nata come una passione ed è finita come un incubo. L’allenatrice portava la bilancia e se mettevi su peso dovevi correre un’ora con i pesi alle caviglie. Un’estate ha esposto un tabellone con il nostro peso e quello che avremmo dovuto raggiungere. Quando mangiavo poco mi facevano i complimenti, così ho finito per convincermi che era la cosa giusta» racconta Francesca. Così “giusta” da farla scivolare nel pozzo dei disturbi alimentari e trovarsi, 8 mesi dopo, ricoverata d’urgenza in neuropsichiatria per anoressia. «Sono alta 1,73 e pesavo 37 chili. Salivo sulla bilancia 30 volte al giorno: la mia allenatrice l’aveva fatta diventare lo strumento per definire il mio valore».

La petizione rivela la punta di un iceberg

La cronaca dice che il suo non è un caso isolato, ma la punta dell’iceberg di un mondo malato di cui ora si cominciano a vedere le storture. E non è un caso che la petizione lanciata dalle atlete per chiedere giustizia, e promossa dall’associazione “Change the game” che combatte la violenza nello sport, stia raccogliendo centinaia di adesioni e altrettante segnalazioni da parte di ragazze e genitori. Uno scandalo che tocca la ginnastica ma che potrebbe riguardare qualsiasi disciplina, spiega Daniela Simonetti, presidente di “Change the game”. Perché mentre va in scena la retorica dei valori dello sport, troppe volte dietro le quinte si lascia che gli abusi vengano coperti da un silenzio complice. Non a caso, tante campagne sociali si sono succedute di anno in anno a una condizione: «Non fare mai riferimento ad atlete ferite per sempre, alle vittime di allenatori senza scrupoli, a bambine e bambini offesi e manipolati, ai linguaggi violenti e volgari in allenamento, a un agonismo precoce e crudele, alla vendita all’incanto di sogni di gloria, alla trappola senza uscita fatta di menzogne e persecuzioni» dice Simonetti.

L’associazione che offre supporto

Un fenomeno che ha proporzioni più grandi di quanto si pensi. Una prova si legge nel report Indifesa 2022 di Terres des Hommes dedicato alla condizione delle bam- bine nel mondo che, in un capitolo, parla anche di sport presentando i dati di uno studio europeo finanziato dal programma Erasmus: su 10.302 atleti intervistati in 6 università, il 75% ha detto di aver subito almeno un’esperienza legata alla violenza nello sport prima dei 18 anni. Per il 44% si trattava di abusi emotivi, per il 37% di percosse o qualche altra forma di prevaricazione fisica. Per il 35% di molestie sessuali e per il 20% di stupro. Numeri del genere sono difficili da ignorare. «Ma toccare questi temi è ancora tabù» dice Simonetti. Lei ha cominciato a farlo per caso, nel suo lavoro di cronista investigativa dell’Ansa. Così è nato il libro Impunità di gregge (Chiarelettere), un viaggio nella palude di omertà che copre la faccia peggiore del circo a cinque cerchi. «Tutti preferivano lasciare la polvere sotto il tappeto. Allora ho pensato di scrivere un libro, accolto coraggiosamente dall’editore». E, siccome parlare è importante ma non abbastanza, Daniela ha fondato “Change the game” per dare supporto alle famiglie e accompagnare le società sportive nell’introduzione di pratiche sicure.

Il caso francese

«Fin qui le istituzioni sportive italiane hanno fatto troppo poco. Anche per il caso delle ginnaste immaginavo l’istituzione immediata di una commissione di inchiesta, come è successo in Francia con lo scandalo del pattinaggio di due anni fa che ha portato numerosi allenatori a processo». Un altro caso brutto, quello francese, nato dal libro della campionessa Sarah Abitbol in cui accusava l’allenatore di aver abusato di lei quando era adolescente. Una denuncia che, come oggi in Italia, ha dato ad altre vittime il coraggio di parlare, facendo emergere 30 anni di violenze.

Come fermare gli abusi nello sport

Gli strumenti per fermare casi del genere ci sarebbero, spiega Simonetti. Dal chiedere i precedenti penali agli istruttori al prevedere per loro corsi di formazione, fino all’insegnare agli atleti a riconoscere i comportamenti sbagliati. È dello stesso parere Luca Mariano Modolo, psicologo dello sport e psicoterapeuta, consulente della Figc: «In tutti gli sport in cui la prestazione individuale è al primo posto, come la ginnastica ritmica, gli allenatori e i tecnici premono sull’acceleratore senza pensare che la struttura emotiva e l’identità del bambino deve ancora formarsi». Per questo, dice, servirebbe una formazione specifica che chiarisca i rischi che si corrono. «Spesso gli istruttori lo fanno perché nel successo degli atleti vedono un modo per emergere loro stessi e far leva sul corpo è facile. È un tasto che dà risposte veloci, specie con le ragazze, ma è una sfera delicata». Un tentativo in questa direzione lo sta facendo la Fifa che, in collaborazione con l’Onu, mira a istituire Fifa Guardians, un network globale di agenzie che aiutino gli organismi nazio- nali a fare emergere e punire le violenze, non solo nel calcio.

Il caso di Simon Biles e l’allenatore Nassar

Nel frattempo, si guarda come modello all’America dove negli ultimi anni molto è stato fatto, anche grazie al ruolo e al prestigio di Simone Biles, vittima con le sue compagne di squadra del medico della nazionale statunitense di ginnastica Larry Nassar, condannato all’ergastolo per aver abusato di oltre 500 atlete in 30 anni.

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«La prima denuncia contro Nassar è del 1997: la condanna è arrivata 20 anni dopo. Anche in America ci sono state colpe indelebili nel sistema sportivo e universitario» conclude Simonetti. «Poi, però, la reazione giusta è arrivata con una legge del Congresso che ha istituito un’autorità indipendente competente solo sulle indagini e le sanzioni nei casi di violenza nello sport per evitare che il potere politico favorisse l’omertà insabbiando le denunce. È quello che ci vorrebbe in Italia: i meccanismi sanzionatori e le punizioni devono cambiare, se no non si va da nessuna parte. E soprattutto serve portare avanti la parte pulita dello sport che, è giusto ribadire, c’è».

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