Indagine sulle radici sociali della violenza sulle donne, un'emergenza culturale che ci riguarda tutti

Dal 2012 a oggi in Italia sono state uccise 1.170 donne. Solo nelle prime 2 settimane di novembre le vittime sono 3. Mentre sto scrivendo questo articolo, leggo di Anastasia Alashri, morta il 14: era ucraina, aveva 23 anni. A marzo era scappata dalla guerra col marito pasticciere e il figlio di 3 anni e a Fano aveva trovato lavoro in un ristorante. Pochi giorni prima di mo- rire aveva denunciato il suo uomo per maltrattamenti, era andata via di casa ma una sera era tornata per prendere dei vestiti. Voleva rifarsi una vita, è stata pugnalata a morte.

La violenza sulle donne è una questione culturale

I femminicidi sono la tragica esplosione di una violenza che si perpetua quotidianamente nei confronti delle donne. Una violenza che ha radici sociali e culturali così complesse che a volte è perfino difficile da riconoscere. Riguarda la quotidianità, il linguaggio, l’immaginario dei media, le relazioni di coppia e i rapporti di lavoro. Spesso noi donne veniamo dopo. Spesso l’autonomia è ancora difficile da raggiungere, non solo economica- mente. Spesso noi stesse ci metiamo nella posizione di dipende- re da qualcuno. Perché ci hanno insegnato che è giusto così.

La violenza è soggettiva

Ci siamo interrogate in occasione di questo 25 novembre. Possiamo chiamarla così solo quando si arriva alle botte? Non è violenza anche l’umiliazione psicologica, la molestia, la battuta pesante, la frase sessista, il fischio per strada? «Impotenza imbarazzante. È il sentimento che ho provato nelle viscere la prima volta che ho rea- lizzato di non essere capace di oppormi. Non solo non sapevo reagire, non sapevo neppure quale fosse il problema di alcune frasi. Mi limitavo a sentire un torbido fastidio alla bocca dello stomaco, ma non mi era chiaro cosa fosse. Annegavo in una muta rassegnazione» scrive l’attivista Valeria Fonte nel libro Ne uccide più la lingua (DeAgostini). Da allora cerca di smontare la discriminazione di genere che passa attraverso le parole sul suo profilo Instagram e andando a parlare nelle scuole. «La violenza è soggettiva. È ciò che ognuno di noi ritiene sia violenza» mi spiega lo psicanalista Paolo Cre-pet. Sembra una banalità, non lo è quando devi capire qual è il punto di rottura. «È molto complicato, e forse anche sbagliato, stilare una sorta di decalogo della violenza. Perché è una questione culturale, educativa. Un bambino non nasce violento, lo diventa. E se è così, come io credo, la dicitura “violenza di genere” è fuorviante. Perché non chiarisce che dietro a quella violenza perpetrata da un uomo – a volte anche dalle donne – non c’è un cromosoma, ma un atteggiamento culturale».

Violenti si diventa

Un bambino bullo ha assimilato modelli che ha visto in casa, spiega Paolo Crepet, e che la madre accetta. «Il solo fatto di tollerare la violenza è un’educazione alla violenza. Se ne esce con una diversa educazione dei figli maschi, ma anche insegnando a una figlia a non accettare dal fidanzato il benché minimo comportamento violento». Come scrive lo psicanalista nell’ultimo libro, Lezioni di sogni (Mondadori), se ti dà uno schiaffo non è una dimostrazio- ne di amore perché è geloso, se ti vuole tutta per sé senza pensare che non sei una sua proprietà non è perché ti vuole bene. «Tra i fattori che rendono più frequente la violenza, fino ai femminicidi, c’è la frustrazione maschile» continua Crepet. «Non capire che è molto più diffusa di 30 anni fa vuol dire non saper guardare ciò che accade nella nostra comunità». Ma quali sono le cause di questa frustrazione? «Gli uomini di oggi sono stati cresciuti con miliardi di “sì”. Arrivano all’età adulta senza sapere cosa vuol dire perdere: ecco perché scatta l’atto violento quando capiscono di avere perso il possesso di una donna».

Lo stereotipo culturale della colpa

Una notizia mi colpisce: una ragazza di 18 anni in Spagna tenta il suicidio a un anno e mezzo di distanza da quando è stata stuprata. Violentata a turno da almeno 5 ragazzi in una villetta di Primavalle, a Roma, la notte di Capodanno. «È tutta colpa mia» è riuscita a dire agli infermieri che la portavano in ospedale. Ferita nell’anima più che dai tagli che si è autoinflitta sulla pelle. Nel 2020, rileva il rapporto Istat pubblicato nel 2021, le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019. Sono 15.387 le donne che hanno iniziato un percorso con i centri antiviolenza. Per la maggior parte si tratta di violenze psicologiche (89,3%), seguite da quelle fisiche (66,9%), le minacce (49%), la violenza economica (37,8%), quella sessuale (12,7%), lo stupro (9%). Molte volte, però, le donne non denunciano per paura, per sfiducia, perché non sanno a chi rivolgersi. Anche perché non comprendono la gravità di una violenza sessuale all’interno di un matrimonio. «Il primo effetto della violenza è la perdita di fiducia in sé da parte della donna» spiega Crepet. Si sente in colpa perché quello che è successo “se l’è cercato”. «Questa banalità – il “te la sei cercata” – deriva dalla cultura: prova ne è il fatto che non la dicono solo gli uomini, ma anche le donne».

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Cos’è la violenza sulle donne

Patrizia Romito è docente di Psicologia sociale all’università di Trieste, dove tiene insegnamenti specifici sulla violenza contro le donne, e autrice di Le molestie sessuali: riconoscerle, combatterle, prevenirle (Carocci). «Secondo la definizione adottata dalle convenzioni internazionali, è violenza qualsiasi azione, parola, espressione del viso che offenda la dignità e che sia sgradita a chi la subisce». Non è violenza sessuale, ma restano comportamenti molto gravi che danneggiano le persone. «Pensi a un’impiegata sul luogo di lavoro o a una studentessa a colloquio con un pro- fessore che subiscono apprezzamenti su come sono vestite, con commenti del tipo “Quella camicia mette in evidenza le sue forme”. Sono anche atteggiamenti come questi che riducono le donne a oggetti sessuali». Le ragazze di oggi sono meno propense ad accettare certi comportamenti? «La sensibilità credo sia aumentata, anche tra i ragazzi. Detto questo, vediamo ancora tanti episodi di molestie a scuola. Li chiamano bullismo, ma hanno una natura molto sessualizzata. La società in generale sta progredendo, però non sono sicura che tra i giovani ci sia molta più consapevolezza» risponde Romito. Pensiamo alle ragazze accerchiate dal branco in piazza Duomo a Milano, lo scorso Capodanno. «Sono dimostrazioni di come una parte del mondo maschile non abbia ancora capito che le donne non sono oggetti sessuali a propria disposizione. Vuol dire che c’è ancora tanta strada da fare» puntualizza la professo- ressa. «Aggiungo, perché è una cosa che mi preoccupa, che in casi di stupro in ambiente scolastico le ragazze sono poco solidali con chi è stata aggredita». Perché? «Perché siamo sommersi, e sommerse, in una cultura di stampo patriarca- le in cui gli uomini, come gruppo, sono in una posizione dominante. E chiunque cerca di stare dalla parte di chi ha più potere».

Il cambiamento deve avvenire tra gli uomini e tra le donne

«C’è da dire che le donne hanno fatto una strada immensa, trascinando gli uomini – obtorto collo a volte – con sé. Gli uomini devono fare uno sforzo supplementare perché gli aggressori sono soprattutto loro» osserva Romi- to. «Certo, è un percorso lungo perché il patriarcato esiste da millenni e ha radici forti dappertutto. Ha influenzato le leggi, le istituzioni, il funzionamento sociale, le opinioni, gli stereotipi. Ci vogliono educazione, formazione, attenzione da parte dei media. Essere sempre allertati sulla questione: non rifiutarsi di guardare, agire».

Quanto conta l’educazione

«L’educazione è fondamentale nella prevenzione di comportamenti violenti» spiega la scrittrice Claudia De Lillo, mamma di tre maschi di 12, 16 e 19 anni, conduttrice radiofonica e autrice di Elasticamente parlando, (che esce il 29 novembre per Tea). «Una psicologa in un centro per uomini maltrattanti mi raccontava che la violenza è una scelta e mi spiegava che questi episodi succedono laddove manca quell’alfabeto emotivo che nelle donne è invece molto sviluppato. Riconoscere le proprie emozioni – quelle positive ma anche quelle negative come la frustrazione, la tristezza e la malinconia – è necessario perché altrimenti si tende a metterle tutte nel grande calderone della rabbia. Lì ho capito quanto fosse importante rendere i miei figli liberi di parlare di quello che sentono. A maggior ragione delle cose brutte. Sono convinta che un’educazione che insegni l’alfabe- ismo emotivo sia un buon primo passo per prevenire atteggiamenti violenti». E i messaggi che arrivano dall’esterno? Le divisioni sociali tra maschi e femmi- ne? «Qui deve intervenire l’esempio in famiglia: l’alternanza dei ruoli tra padre e madre, il non adeguarsi a stereotipi di genere. Poi è vero che durante l’adolescenza la pressione dei pari diventa dominante e gli intoppi ci sono, ma pre- parare il terreno prima è molto efficace nel prevenire poi machismo e violenza».

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