INSIEMEPaolo e Michela, protagonisti della storia di Alzheimer precoce che ti raccontiamo in questo
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Paolo e Michela, protagonisti della storia di Alzheimer precoce che ti raccontiamo in questo articolo

Io, mio marito e l’Alzheimer a 50 anni

«Ogni istante fiorisce e quello dopo incontra l’inverno». Così Michela descrive l’alternarsi di luce e buio nella mente di Paolo, affetto da una forma precocissima della malattia che cancella i ricordi. E che, a questa età, travolge ancora di più la vita familiare. Perché le strutture sono dedicate ai pazienti anziani. E le terapie alleviano ma non curano

«La casa di oggi – che chiamiamo “la casa della malattia” – è meno colorata rispetto all’appartamento dove stavamo prima; non ci sono pareti arancioni, né scalini, né terrazze. In salotto troneggia il nostro divano rosso e la mia camera da letto è sempre la stessa. Anche quella dei bambini è stata adattata alla meglio e così la camera destinata a te. Il recinto ci protegge dalla strada e il cancello si può aprire solo dall’interno; ringraziando il cielo, tu fatichi a ricordare il meccanismo per aprirlo». La casa della malattia ha anche un giardino e un’amaca bianca su cui si dondola Michela mentre parla con noi, in un raro momento di quiete nel suo “Tetris organizzativo”.

Capelli corti scompigliati, una T-shirt con una scritta, jeans. Ha 49 anni, è la mamma di 2 bambini ma è anche l’infermiera, badante, autista, cuoca, guardiana e angelo custode a tempo pieno di suo marito. Perché Paolo ha solo 50 anni ma è malato di Alzheimer. La storia della loro famiglia è raccontata nel libro Un tempo piccolo di Serenella Antoniazzi, in uscita il 15 luglio (Gemma Edizioni).

IN LIBRERIA La storia di Michela e Paolo è raccontata da Serenella Antoniazzi nel libro Un tempo pi
IN LIBRERIA La storia di Michela e Paolo è raccontata da Serenella Antoniazzi nel libro Un tempo piccolo, in uscita il 15 luglio per Gemma Edizioni (sopra, la cover).

Michela ha scelto con cura la persona a cui prestarla: Serenella Antoniazzi è l’imprenditrice che ha scosso l’Italia con la sua battaglia per difendere l’azienda di famiglia (a suo nome è stato istituito il “Fondo Serenella”, un fondo per il credito alle aziende vittime di mancati pagamenti). «Ci siamo conosciute su Facebook» ricorda Michela «e siamo diventate amiche. Mi ha colpito la sua purezza e la sua forza. Siamo 2 lottatrici, nostro malgrado. Come me, lei non avrebbe voluto essere una roccia, un’eroina, ma solo una persona normale». Invece non c’è nulla di normale nella vita di Michela e Paolo, una vita che non assomiglia per niente alla Wonderful Life della loro canzone preferita.

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«Era un papà affettuoso ma a volte si dimenticava di andare a prendere i bambini a scuola»

I ricordi belli sono stipati in un tempo davvero piccolo. Perché, anche se la diagnosi di Alzheimer precoce è arrivata ufficialmente 5 anni fa, le loro peregrinazioni tra medici e ospedali sono iniziate molto prima, alla ricerca di una spiegazione dei vuoti di memoria di Paolo, delle sue dimenticanze, del suo disorientamento, del “buio cellulare” che lo lasciava sempre più smarrito.

«Non c’è un giorno in cui tutto è iniziato, ma tanti segnali: era un papà affettuoso però a volte si dimenticava di andare a prendere i bambini a scuola e accusava me di non averlo avvisato, riceveva richiami al lavoro e dava la colpa ai colleghi. Diceva di amarmi ma mi rinfacciava cose che non avevo mai fatto, era sempre più cupo, aveva scatti di rabbia improvvisi. Le stranezze sono diventate sempre più frequenti, finché gli ho detto: “O andiamo da un medico o faccio le valigie”».

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Michela ha paura perché nella storia familiare di Paolo c’è un precedente – suo padre si è ammalato a soli 48 anni del morbo di Pick, una malattia cerebrale degenerativa – e si domanda se ci possa essere una componente genetica. La diagnosi arriva 2 anni dopo, quando Paolo ne ha 45, ed è implacabile: Alzheimer precoce.

«Tanto prima è l’esordio, maggiori sono le probabilità che si tratti di una forma familiare geneticamente determinata. Ma il morbo di Pick è una malattia diversa dalla malattia di Alzheimer, fa parte delle demenze fronto-temporali, in cui le forme genetiche familiari possono arrivare al 20% dei casi. Le forme genetiche familiari di demenza di Alzheimer, invece, sono molto rare, parliamo all’incirca dell’1% del totale» dice Pietro Tiraboschi, responsabile dell’Unità clinica delle demenze dell’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano.

I casi di Alzheimer sono in costante in aumento, come spiega Massimo Filippi, professore ordinario di Neurologia e primario di Neurologia presso l’ospedale universitario San Raffaele di Milano: «In Italia ci sono 1 milione di persone affette da demenza, di cui 600.000 malate di Alzheimer. Un numero destinato a salire in maniera vertiginosa perché si tratta di una patologia legata all’invecchiamento quindi aumenta con l’allungarsi della vita media».

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«Il lockdown ha interrotto le attività di supporto: arteterapia, canto, stimolazioni»

Le forme precoci come quelle di Paolo sono tuttavia rarissime. «La demenza di Alzheimer colpisce il 25% della popolazione sopra gli 80 anni, il 5% sopra i 60. Mancano studi per fasce di età relativamente più giovani, ma dovremmo attestarci intorno a 1-2 casi su 5.000 tra i 50 e i 60 anni e 1 su 10.000 prima dei 50» aggiunge Tiraboschi. È il caso di Paolo: quando arriva la diagnosi lui e Michela sono pietrificati, ma non perdono le speranze.

«A distanza di tempo posso dire che a lungo ho creduto, o ho cercato di credere, che in qualche modo ne saremmo usciti». Invece non è così: col tempo Paolo non è più in grado di guidare, di lavorare, a tratti non ricorda non solo la combinazione del cancello ma anche il nome dei suoi bambini e se ha fatto la doccia.

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Michela dice nel libro: «Ogni istante fiorisce e quello dopo incontra l’inverno» e, in questa alternanza di luce e oblio, l’oblio cancella pezzi sempre più grandi della loro famiglia. Così Michela e Paolo decidono di regalarsi un diario, e di regalarlo a Mattia e Andrea, i loro bambini, «per ricordare quello che sono stati e che erano destinati a essere». «Paolo ha contribuito al libro» racconta Michela «ma non è stato facile, io e Serenella dovevamo essere pronte ad accogliere le sue parole nei momenti di lucidità che ultimamente sono sempre più rari. Il lockdown ha peggiorato molto la sua situazione, perché sono venute a mancare tutte le attività che gli consentivano una vita un po’ più dignitosa: l’arteterapia, il canto, lo sport, le stimolazioni. È crollato il nostro piccolo castello di cristallo».

Perché la verità è che, allo stato attuale, non esiste una cura per l’Alzheimer. Spiega Massimo Filippi: «Le terapie a disposizione, da quelle farmacologiche a quelle di stimolazione transcranica, hanno la funzione di migliorare la vita dei pazienti, ma non hanno un impatto sull’evoluzione naturale della malattia. Vengono attenuati i sintomi, non modificato il decorso. Sono in fase di sviluppo anticorpi monoclonali contro la proteina beta-amiloide, una delle responsabili della degenerazione neuronale. Si tratta di farmaci in grado di rimuovere questa proteina e hanno notevoli potenzialità ma non sono ancora in commercio». In quello che Michela chiama “il castello di cristallo” ci sono anche trattamenti non farmacologici. «Si tratta della stimolazione cognitiva, inclusa la Reality Orientation Therapy e di altre tecniche, come la stimolazione magnetica transcranica, che possono essere di qualche efficacia durante il trattamento, mentre è più controverso se l’effetto si mantenga o meno una volta sospeso il trattamento» spiega Tiraboschi.

«Non esistono centri riabilitativi per giovani malati di demenza»

Migliorare la vita dei pazienti durante la cura significa anche migliorare quella dei caregiver che si occupano di loro: 3 milioni di persone in Italia. Perché l’Alzheimer ha un impatto devastante sul paziente ma anche sulla famiglia, a maggior ragione se questa famiglia è ancora molto giovane. Michela ha dovuto lasciare il suo lavoro, ha 2 bambini piccoli di cui occuparsi, 2 cani, la casa.

Quali sono gli aiuti in Italia per le persone come lei e Paolo? Spiega Francesca Triloca, psicologa della linea verde Alzheimer di A.I.M.A (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer): «Se il paziente sta ancora lavorando è prevista la pensione di invalidità. Poi esiste l’indennità di accompagnamento, un assegno mensile di circa 500 euro riconosciuto quando la persona non riesce a compiere, senza assistenza, azioni di base della vita quotidiana come l’igiene personale, la nutrizione». Un assegno che arriva quindi molto tardi, «troppo tardi» dice Michela.

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E oltre a questo? «Dipende dalle Regioni, gli aiuti sono a macchia di leopardo» continua Triloca. «I Cdcd, Centri per il decadimento cognitivo e le demenze, sono il riferimento per l’iter diagnostico e il trattamento delle demenze. Ma l’organizzazione sul territorio è disomogenea. Inoltre Rsa e Centri diurni sono riservati a pazienti over 65». Si tratta di un sistema architettato per persone molto più anziane di Paolo, come osserva Triloca: «Non esistono centri riabilitativi per giovani malati di demenza, i servizi attuali sono concepiti per persone con attività, interessi e tempi tipici di questa fascia d’età. Soltanto alcune associazioni no profit si occupano di offrire percorsi per malati giovani con demenza».

«Sono stanca, non dormo più la notte e devo rientrare al lavoro»

Non c’è un lieto fine nella storia di Michela e Paolo: «Sono stanca, non dormo più la notte, e devo rientrare al lavoro perché abbiamo bisogno del mio stipendio e non posso più chiedere a un bambino di 11 anni di trasformarsi in un badante mentre io faccio la spesa e ai miei genitori di occuparsi a tempo pieno dell’altro mio figlio». Forse a breve dovrà trovare una struttura disposta ad accogliere suo marito anche se ha meno di 65 anni, un orizzonte inevitabile che le spezza il cuore. Intanto Paolo si è svegliato dal pisolino, il viso di Michela si addolcisce mentre ce lo presenta in videochiamata: ha i capelli ancora tutti neri, un bel viso e il corpo atletico, saluta gentilmente, il sorriso svagato è l’unica traccia dell’“altrove indefinito”, come lo ha chiamato lui, a cui è condannato.

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Cosa sono gli Alzheimer cafè

Per famiglie e malati che non sono abbastanza gravi da accedere ai servizi residenziali, ma che hanno comunque una malattia in fase iniziale o intermedia, esistono gli Alzheimer cafè. Nati nel 1997 da un’idea del medico olandese Bere Miesen, sono luoghi di incontro tra pazienti, famiglie e professionisti. Sono organizzati da onlus e e cooperative sociali, spesso all’interno di Rsa, Centri diurni, spazi parrocchiali. Per una mappa regionale: www.alzheimer.it/alz_cafe.html.

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