Genitore anziano figlia madre anziana donne

Genitori con l’Alzheimer: chi aiuta i caregiver?

In Italia 1,1 milioni di persone soffrono di demenza. Fra questi, 600.000 sono affetti da Alzheimer. Attorno a queste persone ruota la vita di circa 3 milioni di familiari che troppo spesso non sanno come affrontare la situazione. Qui cerchiamo di dare qualche consiglio

I malati di Alzheimer in Italia

In Italia non sappiamo nemmeno con precisione quanti siano i malati di demenza. Le stime dicono 1,1 milioni, di cui 600.000 affetti da Alzheimer. Attorno a queste persone ruota la vita di circa 3 milioni di familiari, ma ognuno di loro è come una barchetta in mezzo al mare: naviga a vista. «Non è mai stato messo a punto un censimento ufficiale sulle demenze, e questo già dice quanto lavoro ci sia da fare» dice subito Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia.

La sua associazione è tra le prime in Italia a offrire assistenza e supporto. «Oggi gli strumenti per migliorare la vita dei malati e dei loro cari ci sono» spiega «ma se ci guardiamo attorno ci rendiamo conto che le famiglie non sanno da dove cominciare. Quando arriva a noi, la maggior parte di loro è già in emergenza».

La speranza di vita media di chi soffre di Alzheimer va dai 3 ai 10 anni, può raggiungere i 18. Sono anni passati senza una vera cura, il più delle volte alla sfiancante ricerca di una badante o di un ricovero, perché la vera presa in carico del paziente e dei suoi bisogni, a livello pubblico, non c’è.

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Cosa possono fare i caregiver

Oggi chi sospetta la malattia può rivolgersi a un Cdcd, il Centro per i disturbi cognitivi e le demenze: sono presenti in ogni Regione. «Vengono concepiti per seguire i pazienti e curarli a tutto tondo. Ci lavorano équipe con geriatri, neurologi e psichiatri, che dovrebbero indirizzare le famiglie anche sull’assistenza» spiega Antonio Guaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, che si occupa di studi e ricerche sulle demenze.

Ma già a questo livello c’è il primo scollamento. Un’indagine dell’Istituto superiore di sanità rilevava qualche anno fa che un centro su cinque era aperto un solo giorno alla settimana, e il 23% aveva liste di attesa sopra i tre mesi. Non solo. «Spesso ci si ferma alla terapia farmacologica, manca il coordinamento con i medici di famiglia, a volte non ci sono nemmeno gli psicologi» denuncia Possenti. «Nonostante questo gap, è importante che i familiari si muovano da subito. Già alla diagnosi bisogna chiedere al Cdcd se il Comune mette a disposizione servizi socio assistenziali, se ci sono cooperative specializzate, centri diurni, iniziative a livello locale. E se non si riceve risposta, allora serve rivolgersi alle associazioni di pazienti come la nostra».

L’importante, spiega Mario Possenti, è non pretendere di fare tutto da soli, uscire dall’isolamento. «Le faccio un piccolo esempio. La nostra associazione organizza a Milano corsi di ginnastica dolce per persone con demenza. Sembra una cosa da poco ma non lo è. Cercare occasioni di socialità è importantissimo per i malati, perché a casa si finisce spesso per passare il tempo davanti alla tv, accelerando il declino cognitivo e rischiando di perdere in breve tempo le capacità residue. È un modo anche per scardinare la prigione interiore in cui si rifugiano tanti familiari: preferiscono chiudersi tra le quattro mura sperando di proteggersi dallo stigma sociale che persiste sulla malattia, una paura e una vergogna che dobbiamo cercare di abbattere».

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I centri diurni per persone affette da demenza

Altrettanto importanti, dove ci sono, sono i centri diurni. «Non vanno concepiti come “contenitori” dove lasciare il proprio caro per avere sollievo, ma luoghi di terapia, dove fanno attività che a casa non riuscirebbero a portare a termine» dice il dottor Guaita. Gocce nell’oceano nero di quell’assistenza 24 ore su 24 che la famiglia deve garantire a chi non ha più una mente capace di guidare nel mondo. Ma spesso ha gambe ed energia sufficiente per perdersi in questo stesso mondo.

«Qualcosa si comincia a fare nel campo dell’assistenza domiciliare. Regioni come la Lombardia hanno collaudato la formula delle Rsa aperte, che coinvolgono figure diverse, dal fisioterapista all’infermiere, allo psicologo: il malato resta con la famiglia ma c’è chi viene a casa per la stimolazione cognitiva e chi addestra i caregiver per metterli in grado di affrontare tutte le situazioni» aggiunge il medico.

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Nella nebbia che ancora avvolge la genesi di questa malattia una certezza c’è. Prima si interviene, più si ritarda il momento di non ritorno, quello in cui la convivenza domestica diventa impossibile. È la fase più drammatica, che spesso coincide con la ricerca di un centro specializzato dove trasferire il proprio caro, scelta non solo costosissima, ma che viene vissuta con enormi sensi di colpa. «Il ricovero viene visto come una soluzione senza ritorno, un fallimento. Ma qualcosa si sta muovendo: esistono Rsa con nuclei dedicati ai malati di Alzheimer. Oppure strutture dove sono previsti ricoveri temporanei, durante i quali si curano i disturbi che hanno reso incompatibile la convivenza domestica, e che si concludono con il rientro in famiglia. Circa l’80% dei pazienti torna a casa» aggiunge il dottor Guaita.

Il database nazionale delle strutture che aiutano i malati

Esistono, sì. Ma dove cercarle? In Italia c’è un database nazionale con la mappa di Cdcd, centri diurni e Rsa, curato dall’Istituto superiore di sanità sulla base dei dati forniti dalle regioni (iss.it/le-demenze). «Ma le informazioni non sempre sono esaustive e scegliere è difficile, anche perché offerta e qualità sono disomogenee» ammette Nicola Vanacore, responsabile scientifico dell’Osservatorio sulle demenze dell’Istituto superiore di Sanità.

A marzo il Piano nazionale demenze è stato finanziato con un fondo da 15 milioni di euro, di cui una parte servirà a costruire quella rete di assistenza che oggi manca. «Il modello già c’è in alcune realtà, come la provincia di Brescia. Tutto avviene in coordinamento tra le varie strutture, risparmiando ai familiari lo stressante ping pong da una all’altra. Ed evitando il Pronto soccorso, l’unico posto a cui oggi le famiglie si rivolgono quando il loro caro ha un attacco. E dal quale si esce con un senso di sconfitta. E di solitudine».

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Le città amiche delle persone con demenza

In Italia ci sono 37 “città amiche delle persone con demenza”, piccoli Comuni dove vigili urbani, commercianti, bibliotecari, sono stati formati per poter interagire con una persona con demenza, ma anche luoghi dove vengono organizzate iniziative e attività dedicate ai malati. Info e mappe su: dementiafriendly.it/.

Alzheimer: parliamone sui social

Tra le associazioni più diffuse c’è la Federazione Alzheimer Italia (alzheimer.it) che, oltre a promuovere la ricerca, offre sostegno a malati e familiari.

L’Aima (Associazione italiana malattie di Alzheimer, alzheimer-aima.it) mette a disposizione anche una Linea Verde Alzheimer (800679679), per rispondere a dubbi e domande. Sui siti trovi mappe e numeri delle sedi locali. Sono tantissimi anche sui social i gruppi di famiglie che si scambiano informazioni e si danno una mano.

Tra i più popolari, su Facebook, il gruppo Alzheimer Italia (facebook.com/ groups/gruppoalzheimeritalia).

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Il libro

Quel giorno che tu non sei più

Tratto dal libro Non so la notte (Bompiani) di Francesca Magni

L’Alzheimer stravolge la vita di intere famiglie. Famiglie normali e impreparate alla tempesta. Lo racconta in un libro struggente una figlia che ha accompagnato il padre negli anni crudeli e insensati della malattia

Il giorno che l’ho conosciuta Zelda mi ha raccontato di avere avuto una figlia con idrocefalo. È vissuta due anni e quattro mesi, non ha mai fatto un sorriso.
Nel reparto in cui lavora Lumi c’è una donna di trentatré anni appena sposata che era convinta d’essere incinta perché aveva la nausea. Era un tumore al cervello. Il marito non la lascia mai, sta sulla sedia accanto a lei e ascolta il suo singhiozzo perenne e i progetti di avere bambini.
Le metastasi alle ossa si sono portate via una mamma della scuola dei miei figli facendola urlare di dolore implacabile ogni notte.
All’asilo di fronte a casa un papà una mattina ha portato i suoi bambini e poi è andato in piscina a nuotare, ha avuto un arresto cardiaco, non è più tornato dai bambini. La mamma di un amico ha avuto una diagnosi di SLA.

È insensato stilare classifiche del dolore, ma mi ci trovo in mezzo ed è inevitabile chiedermi: c’è qualcosa di peggio? Peggio del cervello che perde i neuroni e si sbriciola privandoti di quello che sapevi fare meglio, privandoti delle abilità minime necessarie alla vita, dell’autonomia, della dignità. Qualcosa di peggio dell’averti qui che sei tu e non sei più tu, come un fico rimasto sull’albero e succhiato dagli uccelli. C’è qualcosa di peggio di quello svuotarti lentamente? Per sette anni hai sceso i gradini della scala dell’irreparabile.

Non ricordare dove si trova la piazza principale della città, tu che avevi un GPS nella testa prima che lo inventassero e ti orientavi ovunque senza cartina. Perdere gli occhiali, nascondere le chiavi e non sapere dove, riporre le posate nel cassetto sbagliato, infuriarti quando ti dicono Ma non ricordi?, deprimerti perché qualcosa ti sta sfuggendo ma non sai cosa. Imbestialirti perché ti hanno tolto la patente, farmi gli occhi d’allarme alle spalle della mamma come per dirmi Aiuto, mi tiene prigioniero.
Voler tornare a casa qualunque sia la casa in cui ti trovi, e se ti chiedono Dove abiti?, non rispondere nulla, perché l’unica cosa che confusamente senti è che non abiti più qui.
Scambiare tua figlia per tua sorella, tua moglie per tua mamma, fingere di riconoscere gli amici, crederli parenti. Ricordare tra le città in cui hai vissuto solo il paesino sul lago dove hai trascorso le estati felici della tua infanzia.

Non sapere più quanti anni hai. Esilarare la tavolata di famiglia dicendo che ora uscirai a fare un giro in motoscafo o che tua figlia di mestiere fa il tramviere. Allo stabilimento balneare al mare chiedere allarmato di dare un annuncio con l’altoparlante perché si è persa una bambina, tua figlia. Che ha quarant’anni. Provare a raccontare qualcosa ai tuoi nipoti, non riuscirci e andartene dicendo Sono un coglione, sono un coglione. Congedare chi è venuto a trovarti ogni volta che esce dalla stanza in cui ti trovi, accoglierlo con un sorriso e un saluto ogni volta che rientra nella stanza. Sedere sul divano e chinarti in avanti per fare gesti vaghi con le mani sul tappeto. Non riconoscere più gli oggetti, non saper seguire un film, sedere ignaro come un cane davanti alla televisione. Non trovare la porta del bagno e fare pipì sul comodino. Defecare nel bidet.
Passare il cuscino, una calza, il reggiseno, un bicchiere, un tubetto di pomata alla mamma stesa per terra con la gamba fratturata, perché quella parola che lei ripete supplicando da due ore, il cellulare, il cellulare, tu non la conosci più.

Ora immagino il lento erodersi dei neuroni nella tua materia grigia mentre la materia bianca si trova impossibilitata a generare comunicazioni di senso; la finalità si ottunde, l’intenzione evapora, sei come i robot antropomorfi dei cartoni animati giapponesi di quando ero piccola, che colpiti alla testa dal nemico vagano senza scopo e girano girano girano finché si schiantano al suolo. Sette anni su una scala a chiocciola in discesa, per arrivare qui e in sette giorni portarmi là dove sei, là dove non mi era chiaro che fossi. Non lo era neanche alla mamma, che pure ha vissuto con te ogni minuto di questi anni.

Ci sono luoghi in cui si deve entrare con la consapevolezza, che a volte è un atto di coraggio. Eppure ogni San Silvestro la mamma lo percepiva, il Buon anno rituale era diventato uno schiaffo, l’anno dopo non poteva che essere più doloroso di quello prima. E comunque credo che la SLA sia peggio. Ecco, l’ho detto. È una sciocchezza, ma la malattia è ineffabile e al tempo stesso dà l’urgenza delle parole. Si dicono sciocchezze. Si invoca Dio o lo si bestemmia.

Osservo attonita il tuo corpo, papà, una macchina che si è usurata, una pianta che appassisce perché i meccanismi biologici hanno iniziato a logorarsi: siamo perfetto esempio di obsolescenza programmata. Ti penso parte di un tutto che ci vuole fiori e poi letame per i fiori che verranno. C’è solo quella storia dell’anima, che mi danna. Perché dove sei finito è la domanda che mi faccio di continuo; e se eri i neuroni e le sinapsi che hai consumato, allora la tua anima non c’è più? Maledetta malattia, davanti a te non c’è nulla di sensato da dire.

Libro Francesca Magni
Il libro Non so la notte, più forte di un romanzo
Non so la notte si apre con un’immagine. È quella del giardino di casa di Francesca Magni, l’autrice. Suo padre, malato d’Alzheimer, siede in poltrona, ignaro di ciò che accade intorno: «Dormi e non dormi, ci sei e non ci sei». È l’inizio di un viaggio drammatico di Francesca nella malattia del genitore. Ogni capitolo, una fotografia: i frammenti delle giornate, i ricordi di ciò che era e si è perduto, le notti che sfiniscono e i dialoghi impossibili, il modulo di richiesta all’Rsa, il non volersi arrendere e i momenti di rassegnazione.
Leggere il libro è come entrare nella casa e nel cuore dell’autrice, vedere la galleria di badanti generose, sentire il rimorso e la rabbia mentre le operatrici delle Rsa marciano incuranti sui loro mezzi tacchi. E interrogarsi sul perché negli ospedali del nostro Paese il rispetto e l’umanità che si deve a questi malati e alle loro famiglie è ancora lasciato all’indole e alla sensibilità dei singoli.
Non so la notte è pubblicato da Bompiani.
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