«Meno male che avete messo quelle firme prima dell’inizio di tutto questo casino!”». Ogni volta che sento una delle mie migliori amiche e parliamo di come riesco a gestire l’emergenza coronavirus sul piano sentimentale, mi sento ripetere questa frase. Meno male, davvero.

Ufficialmente siamo una coppia di fatto “italocatalana” dal 17 febbraio, stiamo insieme da un anno e due mesi, siamo entrambi classe 1990 e guardando al futuro, ci vediamo insieme tra una sessantina d’anni, a raccontare ai nipotini di quando il nonno e la nonna hanno dovuto affrontare il coronavirus a 1319 km di distanza. Lui è un avvocato di Barcellona, io sono una giornalista pubblicista italiana, in questo momento in isolamento fiduciario a Terni, nella casa dei miei, perché ero a Venezia con loro prima che venisse dichiarata zona rossa. Lui è a Barcellona, perché è stato minacciato di venire licenziato se fosse venuto a trovarmi o se io fossi andata a trovare lui. Io sono qui, appesa alla nostra chat di Whatsapp e alle notizie che arrivano dal mondo per trovare un briciolo di speranza.

È la prima volta da quando ci conosciamo che non sappiamo quando ci rivedremo; è la prima volta da quando stiamo insieme che non possiamo fare un conto alla rovescia senza sentire una spada di Damocle sulle nostre teste e un peso sul cuore dovuto all’impotenza di tutti davanti a un’emergenza del genere. Il nostro Google calendar pieno di fine settimana qui in Italia e di fine settimana lunghi a Barcellona è in bilico, così come la possibilità di festeggiare, tra meno di un mese, i suoi 30 anni con la sua famiglia e i suoi amici. I suoi nonni hanno tra gli 80 e i 90 anni, non mi avvicinerei mai e poi mai a loro con quest’emergenza in corso, né a lui, sapendo di impedirgli poi di vederli per minimo due settimane. La sua famiglia è comprensiva, si preoccupa per me (e per i miei, che fanno comunque parte della “popolazione a rischio” per questioni anagrafiche) e sdrammatizza nella chat di gruppo, ma l’opinione pubblica spagnola si è scagliata a più riprese contro gli italiani in queste settimane e, con l’idea di trasferirmi a settembre in pianta stabile a Barcellona, leggere tutto quello che sono arrivati a scrivere in questi giorni non ha certamente aiutato a risollevare il morale.

Ieri abbiamo discusso perché, nonostante tutto quello che sta succedendo qui, ancora a Barcellona non ci fosse quella consapevolezza che evitare gli assembramenti, cercare di ridurre al minimo le uscite di casa, potrebbe aiutare davvero a ridurre il rischio di un’impennata dei contagiati come da noi. Oggi la Spagna ha interrotto i voli per e dall’Italia e io mi sono ritrovata a dover interrompere il pranzo, scoppiando a piangere come una bambina piccola davanti ai miei, per l’ondata di impotenza e distanza impossibile da accorciare che ho sentito letteralmente infrangersi sulle mie spalle. Poco dopo Raül mi ha scritto un messaggio che mi ha fatto sorridere mentre mi asciugavo gli occhi: «Attraverserò la frontiera a remi, se necessario, non credere che mi fermi un virus». Rimaniamo a casa, per favore: vogliamo tutti tornare a poter abbracciare qualcuno il prima possibile senza dover imbracciare i remi, no?

(di Chiara Colasanti)

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