Giulia Scaffidi aveva appena 17 anni, ne avrebbe compiuti 18 tra pochi giorni, ma non è riuscita a festeggiare e probabilmente il suo sarebbe stato un compleanno trascorso a letto. Pesava 26 chili, soffriva da 3 anni di anoressia, era già stata in ospedale. Uscendo si era ripromessa di non cadere più nella trappola di una malattia così legata a un’idea di bellezza distorta e irreale. Ma non è stato così: l’anoressia è tornata, tanto da farla finire in coma e poi morire. Il fratello Tony ha lanciato un messaggio al mondo social e in particolare alle fashion blogger, perché «diano l’esempio per prime, evitino di accostare il raggiungimento della forma perfetta ai sacrifici alimentari. Si è belle anche con qualche chilo in più. Io sono pronto a dare una mano se serve. A mostrare le foto di come era diventata Giulia perché altre ragazze non cadano più in quest’errore».
Ma come si interviene di fronte a questo “errore”? «Purtroppo i disturbi alimentari sono patologie in crescita e interessano una fascia di popolazione che dovrebbe essere preziosissima per tutti noi, i giovani, che sono il futuro. Il lockdown, però, ha portato a una recrudescenza di queste malattie e la carenza di servizi per intervenire e curare, che erano già sottodimensionati rispetto alle richieste, è emersa ancora di più» spiega Ettore Corradi, direttore di Dietetica e Nutrizione clinica dell’ospedale Niguarda.
Una malattia da curare e da cui è possibile guarire
In Italia si stima che ogni anno ci siano 4-5 mila nuovi casi di anoressia e bulimia, che rappresentano un po’ le due facce della stessa medaglia dei disturbi dell’alimentazione. A questi numeri si aggiungono quelli dei casi già esistenti. Uno su dieci si registra già nella pre-adolescenza, anche se poi i problemi si verificano soprattutto in adolescenza, come conferma la storia di Giulia: «Purtroppo ci dice che non siamo ancora in grado di rispondere come dovremmo a questa malattia devastante, dovremmo fare di più, meglio e con interventi più specifici. Non si dovrebbe morire per una malattia curabile: dall’anoressia si può guarire, abbiamo i mezzi per poterlo fare, anche se purtroppo non sempre riusciamo a intervenire per tempo e nel modo giusto» osserva Maria Gabriella Gentile, referente del Centro dei Disturbi del comportamento alimentare del Centro Diagnostico Italiano a Milano. In 30 anni di attività in prima linea contro l’anoressia, Gentile, che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di centri di cura presso gli ospedali San Carlo e Niguarda di Milano, oggi ammette: «Non sempre siamo pronti, come medici, dal punto di vista della formazione: non tutti conoscono le conseguenze devastanti del digiuno protratto o quelle psicologiche che l’anoressia porta con sé. Dovremmo sempre ricordare che la malattia della mente devasta anche il cervello e che la terapia della parola da sola non basta: dovremmo lavorare maggiormente in equipe. Ci sono molti casi come quelli di Lodi ed è fondamentale intervenire tempestivamente, dando anche supporto alle famiglie». Ma come? E chi dovrebbe farlo?
A chi chiedere aiuto
«Intanto è importante la tempestività dell’intervento. Se aspettiamo che sia il paziente a chiedere aiuto, è molto probabile che avvenga tardivamente, sia perché può esserci vergogna, sia perché il disturbo alimentare, come nel caso dell’anoressia nervosa, non viene percepito come un problema, ma come una possibile soluzione, un modo per raggiungere un “equilibrio”. È importante, quindi, l’eventuale intervento di genitori, ma anche compagni, insegnanti, allenatori, chiunque abbia a che fare col giovane» spiega Corradi. «Teoricamente dovrebbe essere coinvolto il medico di base, che dovrebbe anche essere in grado di indirizzare un centro che si occupi del problema».
Complice il Covid e il periodo di lockdown, si stima che in Italia siano 2,5 milioni le persone che soffrono di disturbi dell’alimentazione. Per questo di recente è stato anche attivato un numero di telefono gratuito per tutto il territorio nazionale, da chiamare in anonimato per un supporto o anche per informazioni sui centri a cui rivolgersi sul territorio nazionale (numero 06 95 94 56 56, attivo dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00). L’iniziativa, organizzata dagli Psicologi dell’emergenza del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta (CISOM) insieme a Fondazione Eni, si unisce al Numero Verde SOS Disturbi Alimentari (800.180.969) e al portale (chiediloqui.it), che mette a disposizione operatori ed esperti per quanto riguarda l’area Corpo e Alimentazione, nell’ambito di un progetto promosso e finanziato dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, il Dipartimento di Ricerca Sociale e Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma e dalla USL 1 dell’Umbria.
Anche in Regione Lombardia è stata attivata una rete di spazi ambulatoriali in ogni Asst regionale, indipendentemente dalle dimensioni di quest’ultima, in modo da poter effettuare i primi accessi ovunque per poi eventualmente essere indirizzati a strutture pubbliche e private per trattamenti più specifici. Va tenuto presente, infatti, che i percorsi di cura generalmente sono lunghi e può capitare di imbattersi in liste d’attesa.
Esiste, infine, un elenco di associazioni attive alle quali rivolgersi per informazioni e bisogni, consultabile sul sito Disturbi del comportamento Alimentare (disturbialimentarionline.it), dove è pubblicata una mappa dell’Italia e dove, selezionando la propria regione, si ha a disposizione un elenco completo delle strutture, con i recapiti telefonici e gli indirizzi email.
Il percorso di cura
Una volta contattati i centri di riferimento, inizia un percorso di cura, che deve essere multidisciplinare e specializzato: «Non bisogna accontentarsi di una cura che riguardi un solo aspetto della malattia, come quello psicologico o del corpo, ma va privilegiato quello più necessario, a seconda della gravità della malattia e del caso specifico: rivolgersi al Pronto Soccorso può essere fondamentale, in casi di emergenza come per un paziente gravemente sottopeso, ma dopo la persona deve essere presa in carico da specialisti, non ricoverata in un reparto ordinario. Per fare questo, però, occorrono competenze» osserva Gentile del Centro Diagnostico.
«Nella realtà spesso si è indirizzati a uno psicologo, dietista o dietologo, che non sono figure appropriate, se agiscono da sole. Occorre un gruppo multidisciplinare, anche a livello ambulatoriale, e con esperienza consolidata nel settore. Purtroppo non è facile formarsi, ma serve un approccio sia sull’area area psichica che corporeo-organica» spiega Corradi. «A seconda della gravità e della specificità, poi, potrà prevalere l’intervento psicologico, psichiatrico o nutritivo, oppure medico-organico, e si deciderà anche se ricorrere a cure ambulatoriali, day hospital o ricovero nei casi più gravi. Le terapie farmacologiche possono aiutare nel contesto di cure integrate, ma non esistono farmaci specifici che curino efficacemente i disturbi alimentari».
Servono più centri ed equipe specializzate
«Purtroppo non esistono centri sufficienti sul territorio nazionale: gli elenchi sono per autocandidatura o autoreferenzialità, ma nessuno verifica quali sono, come operano e le competenze reali di chi ci lavora» spiega Gentile, che sottolinea anche un altro aspetto: «Da noi c’è un altro ostacolo, che invece non c’è in altri Paesi come quelli anglosassoni: a volte non si riesce ad andare avanti nel percorso di cura perché i pazienti non vogliono accettare le cure stesse, mentre bisognerebbe poterle mettere in atto nonostante il loro diniego. Insieme ad altri colleghi della SISDCA, la Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, abbiamo più volte sollecitato la necessità del trattamento mirato obbligatorio».
Anche le famiglie vanno supportate
«Questo è un altro aspetto critico e non banale, da un punto di vista organizzativo. La famiglia deve essere coinvolta e rappresenta una risorsa virtuosa nella cura, quindi deve essere formata: quando i genitori ci dicono che non riconoscono i loro figli, per esempio, occorre spiegare loro che spesso c’è un sovvertimento dei meccanismi di pensiero e bisogna sostenere madri e padri nella capacità di tenuta per una malattia che li mette in crisi o che può farli sentire inadeguati» spiega l’esperto del Niguarda. «Nonostante le difficoltà, però, va sottolineato che dalla anoressia si può guarire e in 30 anni posso assicurare di aver visto molte ragazze uscire dalla fase acuta della malattia, guarire e diventare donne realizzate e anche mamme, se lo vogliono» conclude Gentile. «Per fare questo occorre proprio e anche supportare le famiglie, che devono essere alleate nel percorso terapeutico, mai escluse né colpevolizzate».