Sfide mortali in Rete, perché i ragazzi ci cascano

La morte di Igor Maj, un ragazzo quattordicenne a Milano, avvenuta per soffocamento causato da una corda da arrampicata avvolta attorno al collo, ha assunto, ben presto, sfumature preoccupanti all’esito dell’analisi della cronologia del suo PC e dei suoi strumenti elettronici operata dalle Forze dell’Ordine. Il timore che si è subito diffuso è che l’incidente potesse essere stato condizionato dalla visualizzazione, su YouTube e altri siti, di filmati con milioni di fan contenenti sfide (lo scopo è rischiare e provare sensazioni forti) e suggerimenti per attuare il soffocamento volontario. Il gioco sotto accusa si chiama blackout (ha molti altri nomi, choking game è il più noto) e spinge a provare a privarsi dell’ossigeno fino allo svenimento.

La magistratura sta indagando sui siti web e sui canali che hanno diffuso simili video, valutando ipotesi di istigazione al suicidio. Si cerca di comprendere, in sintesi, se vi siano persone in rete che presentano come un “gioco” determinati comportamenti pericolosi e potenzialmente mortali al fine di condizionare psicologicamente altre persone, soprattutto deboli e vulnerabili.

In attesa di conoscere, all’esito delle indagini, tutti i particolari del caso, e con la Polizia Postale che sta contattando i provider e le piattaforme per oscurare i video e i canali, vi sono comunque ampi margini per alcune riflessioni di carattere generale. 

La prima considerazione riguarda il potere di emulazione che hanno, oggi, video, messaggi, meme e “ambienti” tecnologici dove gli adolescenti si ritrovano e dove sono sempre più soli, in quanto stanno abbandonando le piattaforme dove sono sempre più presenti genitori e nonni e si stanno creando delle nicchie digitali solo per loro dove migrare in silenzio. Queste nicchie prendono la forma di canali, collegamenti, app, contatti, gruppi dove il linguaggio, la tecnologia utilizzata, i temi trattati sono non solo esclusivi di loro adolescenti ma sono anche pensati per essere ostici per gli adulti, ad esempio in un’ottica di controllo o di utilizzo delle app.

La voglia di ribellione degli adolescenti è, oggi, anche online, dove trova un insieme di colleganza, complicità, possibilità di scambiare esperienze che è molto più ampia rispetto al tradizionale mondo fisico. Il problema è che il controllo da parte di genitori e insegnanti, nella Rete, è molto più complesso, se non impossibile. Entrare in determinati “circuiti” di discussione, di scambio di idee e anche di emulazione, è, per gli adulti, estremamente complesso anche quando i contenuti circolano non nel deep web, come spesso a sproposito si dice, ma sotto agli occhi di tutti e in chiaro.

Il secondo aspetto, conseguente al primo, è che l’adolescente può avere una seconda (o terza, o quarta) vita elettronica che può essere completamente differente da quella “fisica”, da come il ragazzo o la ragazza sono visti nell’ambito familiare, a pranzo, a cena, alle feste comandate, da parte dei membri del nucleo familiare.

Il nuovo “corpo elettronico”, o profilo, che l’adolescente si crea, non ha limiti, perché le piattaforme non generano vincoli. Non ha limiti nel linguaggio usato (in quante occasioni un genitore che legge le conversazioni del figlio su WhatsApp afferma, istintivamente, “ma quello non è lui”, e ne è convinto, quando in realtà è proprio lui), non ha limiti nei temi che può trattare o affrontare (sesso e morte, filmati splatter e pornografia in grande quantità sono oggi collegati allo stesso atto di entrare in internet e, quindi, possono arrivare a soggetti che non hanno ancora sviluppato una maturità psichica sufficiente per comprendere a fondo questi temi) e non ha limiti nei contatti che si può creare per generare una rete di persone che la “pensano come lui”, con cui dialogare, condividere i problemi, sentirsi apprezzati e, a volte, emulare. A ciò si aggiunga il fatto che il filtro dello schermo porta a una disinibizione naturale dei comportamenti che può spingere anche adolescenti dal carattere tranquillo verso comportamenti estremi.

In un quadro simile, diventa semplice per chi volesse, ad esempio, profilare e identificare soggetti vulnerabili, raccogliere informazioni su di loro e cercare di condizionarli psicologicamente fino, ad esempio, a portarli al suicidio. La capacità di amplificazione del messaggio in Rete, sino a dare la possibilità di un invio ossessivo-compulsivo di segnali negativi (si pensi a quanti messaggi si possono inviare in un minuto), ha un impatto molto più forte sulla vittima rispetto alla coazione psicologica nel mondo fisico, e ne facilita il condizionamento.

Il cercare di rimuovere video o forum che incitano a certi comportamenti è fondamentale, ed è un’azione sacrosanta da parte dello Stato che reagisce sia a fini preventivi sia ex post, come in questo caso, confidando nel fatto che non ci siano emulazioni. Al contempo, però, penso che sia chiaro a tutti come il problema principale non risieda nelle tecnologie, ma nell’educazione, nella cultura, nel disagio degli adolescenti nel mondo “reale” e nel difficile rapporto con i genitori e gli insegnanti per quanto riguarda la comprensione della reale potenza delle tecnologie e di un suo utilizzo responsabile.

I segnali di disagio sono spesso difficili da comprendere, ma è necessario osservare con attenzione il rapporto tra l’adolescente e il suo smartphone (o computer) e accorgersi, dalle sue reazioni, se qualcosa non va. Quello è il momento nel quale si potrebbe intervenire, quando si nota un uso “malato” del dispositivo elettronico che può portare, poi, ad eventi più gravi.

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