Noi farmaciste in prima linea

  • 17 03 2020

In questi giorni di emergenza la farmacia è diventata un pronto soccorso dell'anima, uno degli ultimi luoghi dove ancora si può avere un contatto personale. Ma come vivono i farmacisti questo momento così drammatico, anche dal punto di vista della sicurezza personale? Ce ne parla Maddalena, farmacista in un paesino alle porte di Milano

«Io ho paura, tanta, ma non per me, glielo giuro dottoressa. Ho paura per mia madre che ha 85 anni, temo di contagiarla». La signora davanti al bancone ha più o meno la mia età e i miei stessi timori. Anch’io ho una madre anziana, cardiopatica, e con il lavoro che faccio non posso chiudermi in casa per evitare i contatti sociali. Lo penso, ma a lei dico: «Noi figlie dobbiamo essere forti, granitiche. Andrà tutto bene». La signora finalmente distende i tratti del volto in un sorriso, mi ringrazia e lascia il posto al cliente successivo.

Sono farmacista da quasi 30 anni, ma alla San Giovanni di Locate Triulzi, un paesino di 10.000 anime a 20 km da Milano, lavoro da un mese. E mai come in questi giorni ho sentito il peso, ma anche le soddisfazioni della mia professione. Tutto è cambiato in pochissimo tempo; noi sette, Silvia (la proprietaria), Catia, Maria, Marina, Matteo, Patrizia e io, abbiamo dovuto adeguarci alle “nuove esigenze dei clienti”. In poche parole non dobbiamo solo fornire consigli professionali sui farmaci, quelli adesso li ascoltano poco. Le persone che entrano, rigorosamente due alla volta, hanno bisogno di essere confortate e incoraggiate perché i medici di base sono irraggiungibili e i dubbi sono moltissimi. Noi facciamo le veci del dottore e dello psicologo. La farmacia è diventata anche un pronto soccorso dell’anima, uno degli ultimi luoghi dove ancora si può avere un contatto personale. 

Intanto il telefono ha ripreso a squillare. Arrivano 50/60 chiamate al giorno, tutte con la stessa richiesta: mascherine. Hai voglia a spiegare che quelle chirurgiche servono a non infettare gli altri e quindi le deve indossare solo chi sospetta o è sicuro di essere malato. «Ho capito dottoressa; comunque ne vorrei 10, passo domani a ritirarle» rispondono. Indossare la mascherina prima di uscire di casa è diventato un gesto rituale, come i guerrieri medievali si calavano l’elmo sulla testa prima di andare in guerra. Se c’è da aspettare qualche giorno perché i fornitori fanno fatica a stare dietro ai nostri ordini, senti la voce dall’altro capo del filo che si incrina. E allora devi rassicurare: «Arrivano, non si preoccupi. Intanto faccia attenzione e stia a casa il più possibile».

Venerdì scorso abbiamo fatto montare le lastre di plexiglas davanti alle nostre postazioni: ora ci sentiamo più protette. Ma dobbiamo stare attente a mantenere le distanze di sicurezza anche tra di noi, mentre giriamo tra uno scaffale e l’altro per recuperare i farmaci. Non sembra, ma anche questa è una fatica. L’altro giorno è arrivato un quarantenne con una pila di ricette della madre anziana: ci ho messo un quarto d’ora a recuperare tutti i medicinali, cercando di non avvicinarmi troppo alle altre colleghe. Alla fine lui mi ha detto «Il vostro è proprio un lavoro indispensabile». L’ho ringraziato e gli ho sorriso dietro la mascherina. 

(Maddalena Bignami – testo raccolto da Chiara Sessa)

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