Così è cambiato il mio soccorso in ambulanza

Elena P., che vedete qui nella foto a destra, fa da più di 10 anni la volontaria prestando servizio sull'ambulanza. Non ha smesso di farlo neanche quando è iniziata l'emergenza Coronavirus. Di giorno al lavoro, di sera quando c'è bisogno è di turno. Tutto è cambiato anche per lei. Che sale da sola nelle case vestita da marziano. E porta un primo aiuto ai “sospetti Covid”. L'accolgono con la paura negli occhi perché il suo volto e il suo sorriso non si vedono. 

Ho fatto il conto: quest’anno compio 11 anni di volontariato in ambulanza. Oggi sono in Croce Verde Baggio, un’Associazione Anpas, molto attiva nel quartiere. La mia associazione ha una storia lunga, che dura da oltre 100 anni. Mi chiedo se, chi l’ha fondata abbia mai pensato di dover affrontare una situazione come questa. Un’emergenza globale, in cui la parte sanitaria è solo uno degli aspetti del problema. Da quando ho iniziato ho sempre fatto un turno a settimana, a cui si aggiungevano, di tanto in tanto, i turni festivi. Ho visto qualsiasi cosa, i servizi complessi sono sempre esistiti. Ma ora è diverso. La prima volta che ti capita un “sospetto Covid” ti accorgi di come tutto sia cambiato. C’è un “prima” e un “dopo”. Il primo servizio Covid è la linea di confine.

Già l’approccio al paziente è differente: per anni ci hanno insegnato che la nostra sicurezza è fondamentale, che siamo un equipaggio e lavoriamo insieme. Prima, quello che dovevamo controllare all’arrivo su una scena, era la presenza di pericoli. Adesso salgo e entro da sola. Il pericolo c’è ma è invisibile. La persona che mi apre la porta di casa teme di esserne stata colpita e leggo nei suoi occhi la paura. Lei non vede il mio volto, non vede il sorriso che faccio sotto la mascherina per cercare di tranquillizzarla. Vede solo un marziano. Ricevo il servizio con un messaggio sul tablet e sul telefono, come sempre. I dati del paziente, l’indirizzo, il codice di gravità. Adesso però osservo con ansia il telefono: squillerà? Squilla. È la SOREU Metropolitana che mi avvisa: “Sospetto Covid. Il Capo Servizio si veste e sale da solo”. Una breve pausa. “Mi raccomando, stai attenta”.

Il tempo dell’intervento si dilata, prima di arrivare dal paziente ci sono dei passaggi fondamentali da fare. Nonostante la sirena, il codice giallo segno di urgenza, mi devo vestire e questo richiede tempo. Durante la vestizione, la fiducia nell’equipaggio è tutto. Io non mi vedo, mi devono guidare. Tuta o camice, occhiali o visore, cuffia, mascherina. Non è facile muoversi bardati in questo modo. Chi ci vede avanzare, scappa. Al posto della divisa arancione con i catarifrangenti, le persone vedono esseri strani, infagottati in una tuta bianca. Non si vedono i volti. Non si capisce se il soccorritore sia una donna o un uomo. Prima capitava di dover tenere lontane le persone che volevano sapere, che si informavano su quello che era successo. Oggi guardano dalle finestre. Poi ti capita anche la signora che ti chiede di fare un selfie mentre porti in ospedale il marito perché tutto sommato è tranquilla.

Il tempo trascorre lento, così vestita: mi si appannano gli occhiali. Più passano i minuti e più dentro la tuta cuocio, le gocce di sudore imperlano la mia fronte. La prima cosa che faccio è cercare di tranquillizzare la persona che non sta bene e i suoi familiari. Tra me e loro però ci sono sia una distanza fisica sia una barriera visiva che rendono impossibile un contatto empatico. Spesso le persone che ci chiamano hanno sentimenti contrastanti: temono di ammalarsi entrando in ospedale e, viceversa, temono di contagiare qualcuno rimanendo a casa. Metto la mascherina al paziente, controllo i parametri. Controllo il respiro. Alcuni lamentano di sentirsi un peso sullo sterno per la tosse continua. Con il saturimetro controllo l’ossigenazione del sangue. Ultimamente i valori che leggo sono tutti molto bassi. I pazienti fanno fatica a parlare, hanno il fiato corto.

Chiamo la SOREU per sapere dove devo andare e con quale codice di priorità. La voce che arriva dall’altra parte è stanca, ma percepisco la solidarietà, la condivisione della preoccupazione e lo scopo comune. Sei il mio paziente cammina e non ho bisogno di aiuto, il resto dell’equipaggio deve restare “pulito”. Quando scendo, il mio collega si siede davanti con l’autista, mentre io prendo posto da sola nel vano sanitario con il paziente. Anche in ospedale è tutto diverso da prima. In molti ospedali ci sono due percorsi differenti. Da un lato si trova il normale pronto soccorso, dall’altro ci siamo noi, i marziani, con i casi sospetti. Durante il percorso e il pre-triage continuo a cercare di tranquillizzare la persona, ma nessuno può sapere se andrà tutto bene. Non è quello che dico ai pazienti, in effetti. Dico loro che tutti noi facciamo e faremo tutto quello che è in nostro potere per aiutarli, che saranno trattati con rispetto. Cerco di spiegare che cosa succederà ora. Tutti sono terrorizzati dall’incertezza. Non posso dare loro la certezza della guarigione, ma posso spiegare che cosa sta succedendo. Nel frattempo, cerco di indovinare dalla voce chi c’è dietro agli altri scafandri. Alcune facce sono nuove, infermieri che arrivano da altri reparti e vestiti così non è proprio possibile capire con chi sto parlando. Quando riconosco qualcuno, lo guardo con il sollievo di chi pensa «Meno male, se sei qui vuol dire che non sei malato». Lascio il mio paziente, che mi guarda spaesato. È da solo, non ci sono i suoi familiari con lui. Anche questo è cambiato.

La scena classica di prima, che faceva un po’ commuovere, di due anziani coniugi che si tengono per mano in attesa di entrare per la visita non c’è più. Le persone sono sole. Non c’è nessuno che le consoli, se non altri marziani come me. Nessun sorriso di comprensione riesce a “bucare” l’autoprotezione. Ci provo con gli occhi, con il suono della voce. Finito tutto vado in uno spazio apposito per svestirmi. È un passaggio complesso, durante il quale il rischio di infettarsi è alto. Nel togliere la tuta dovrò cercare di arrotolarla e sfilarla senza che niente venga a contatto con la divisa; togliendo i guanti, non devo toccare la mia pelle. I movimenti devono essere precisi, non c’è fretta. Disinfetto le mani. Sanifico gli occhiali. Per fortuna della sanificazione dell’ambulanza si sono occupati i miei colleghi.

Il mio turno è finito: 6 trasportati in sette ore. Giro alla ricerca di persone da salutare prima di andare a casa. La sede di Croce Verde Baggio è da sempre un punto di ritrovo di volontari di ogni età che, tra tornei di carte e pasti tra i turni, si scambiano gesti di amicizia e socialità che ora sembrano assopiti. Purtroppo, tutto è cambiato anche qui e mi sembra così vuota. I pochi presenti sono sono quelli che mi danno il cambio. Già pronti con mascherina e guanti per non infettare nessuno tra un servizio e l’altro.

Mentre esco incrocio la coppia che ha consegnato la spesa oggi. Ci sono state più di 20 chiamate per aiutare le persone in difficoltà chiuse in casa. Vado anche io, a riprendere quella che è ormai la mia vita normale. Lavoro a distanza, call continue con i colleghi del mio ufficio. Si esce solo per fare la spesa, una volta ogni due settimane. Mentre rientro a casa penso che in fondo sono fortunata: il turno è finito, domani posso riposare. I miei colleghi che hanno scelto di fare i soccorritori per professione anche domani saranno sulle strade. Il pensiero va a loro, a chi lavora in SOREU, ai professionisti che incontro nei Pronto Soccorso e a tutti quelli che, per questa emergenza, lavorano tutti i giorni.

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