Foto di Claudio Furlan/Lapresse

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Noi, medici di base, ancora in prima linea

Esaminano i casi sospetti, curano i malati meno gravi a casa, seguono i pazienti dimessi dagli ospedali. E ora che i contagi da coronavirus sembrano rallentare i medici di base hanno un ruolo ancora più importante. Ma spesso lavorano senza istruzioni e protezioni sufficienti. Come raccontano qui 3 dottoresse

Da settimane lavorano senza sosta, lasciati con poche direttive e pochi mezzi a gestire i loro pazienti nel mezzo di un’emergenza sanitaria senza precedenti. Sono stanchi, frustrati e alla ricerca costante di soluzioni: c’è chi punta sulle mascherine fai-da-te e chi sulla telemedicina, chi non stacca mai il cellulare e chi si improvvisa psicologo. Nei quasi 2 mesi trascorsi dall’inizio dell’epidemia Covid-19 la nostra attenzione si è concentrata su dottori e infermieri degli ospedali del Nord Italia, che stanno pagando il prezzo più alto.

Ma c’è anche un altro fronte da raccontare, sul quale questo improvviso e mai visto sovraccarico si è distribuito in maniera quasi altrettanto pesante: i medici di base. Sono la prima cinghia di trasmissione tra un sistema sanitario in affanno e pazienti spaventati e spazientiti, ma scontano la schizofrenia legislativa di ciascuna Regione. Sono costretti a dare la precedenza ai colleghi ospedalieri per l’accesso ai sistemi di protezione, ma allo stesso tempo corrono grandi rischi di esposizione al virus durante le visite a domicilio.

E ora che la curva dei contagi sembra abbassarsi, il loro compito di monitoraggio e assistenza sul territorio è ancora più importante, per evitare che le terapie intensive ripiombino nell’emergenza. «Siamo in prima linea senza armi adeguate» scrive in una nota la Federazione italiana medici di famiglia, ricordando che anche questa categoria ha pagato il suo tributo: oltre 10 i morti accertati mentre scriviamo e un numero non definito ma probabilmente molto alto di contagiati. Abbiamo raccolto le storie di 3 dottoresse, al lavoro in alcune delle province più colpite di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna.

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In Lombardia

«Ho trasformato la mia auto in un miniospedale da campo»

Dal 23 febbraio la sua giornata lavorativa inizia alle 8 e non finisce prima delle 20, quando chiama l’ultimo paziente con sintomi da Covid-19. Chiara Mariani ha 36 anni, un marito e un figlio alle elementari. Fa il medico di famiglia a Saronno, 40.000 abitanti in provincia di Varese. Da quando l’emergenza è iniziata, non si è più fermata. Alle 11 di mattina è sotto casa di un paziente colpito dal virus. «Se non hanno un saturimetro, lo strumento che misura l’ossigenazione del sangue, dobbiamo per forza andare noi da loro» spiega, mentre estrae gli attrezzi del lavoro da una C3 bianca trasformata in miniospedale da campo. «Ho registrato ogni giorno tutti i casi sospetti: tra i miei assistiti ce ne sono 79, ma i malati ufficiali, quelli che hanno fatto il tampone, sono solo 4» racconta. La paziente di questa mattina è una di loro: dimessa dall’ospedale perché in miglioramento, non è ancora guarita.

La dottoressa intanto si è vestita. Tuta bianca, sacchetti ai piedi, occhiali, una grossa maschera blu a coprire bocca e naso. «Sono fortunata» sospira «perché ho un amico come Tommaso». Tommaso Mascarello, dentista, fa quel che può per aiutarla. Ha svuotato il suo magazzino, poi ha cominciato insieme ad altri colleghi a cercare mascherine e dispositivi di protezione per tutti i medici di famiglia della zona. «Abbiamo fatto un gruppo su Facebook, “Mooss”, chiedendo a dentisti, medici privati, estetiste e tatuatori di darci una mano» racconta prima di entrare nel palazzo con Chiara. Lei nell’appartamento della paziente, lui fuori dalla porta pronto a chiamare un’ambulanza in caso di necessità. Il cellulare è stato uno dei primi veicoli di contagio in Cina per i medici: meglio non usarlo in ambienti infetti. Sono quasi le 14. Chiara esce dopo un’ora e mezza. «Chi è in isolamento è sempre solo, perciò se posso mi fermo qualche minuto in più per parlare».

Ha gli occhi stanchi, l’impronta della mascherina impressa sul viso. «Ovvio che un po’ di paura c’è» si sfoga «ma questo è il mio lavoro». Giusto il tempo di un salto a casa per mangiare («Per fortuna mio marito cucina bene ed è un ottimo papà»), poi alle 14.30 inizia la lettura delle email: ricette, consigli, visite. Perché se la curva dei contagi inizia a mostrare rallentamenti anche in Lombardia, i pazienti “normali” rimasti indietro reclamano attenzione. Neppure il monitoraggio sui sintomatici può fermarsi: il tasso di mortalità rispetto al Veneto, l’altra regione più colpita, è ancora troppo alto (14% contro 3,6%). Il giro delle chiamate prosegue fino alle 20 per tutta la settimana, sabato e domenica compresi. La normalità è ancora lontana.

«Un amico dentista ha svuotato il suo studio e ha contattato perfino estetiste e tatuatori per trovare i dispositivi protettivi. E mi aspetta fuori dall’appartamento dei pazienti pronto a chiamare l’ambulanza»

Foto di Claudio Furlan/Lapresse

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In Veneto

«Continuo a visitare a domicilio ma ho avuto solo 10 mascherine»

«All’inizio della mia carriera ho lavorato per 10 anni sui grandi ustionati. Ero preparata ad affrontare un’emergenza fatta di ricoveri multipli, distanze, peggioramenti rapidi e alta mortalità. Ma stavolta i numeri sono enormi». Paola Vanzetto ha 60 anni e dal 1994 è medico di base a Piombino Dese (Padova), a poco più di mezz’ora di strada da Vo’ Euganeo, dove è stato registrato il primo decesso ufficiale da coronavirus.

Qui il lockdown è cominciato a febbraio e con un approccio differente da quello lombardo: intervenendo sui casi segnalati dalle Asl e isolandoli dall’inizio (mentre a Codogno i primi contagiati venivano ospedalizzati senza che i reparti e il personale fossero ancora protetti), il Veneto ha circoscritto meglio l’emergenza. Si tratta di un modello che, tuttavia, costringe i medici di base a un tour de force: «Cerchiamo di limitare le visite a domicilio» racconta «ma in un paese con 7 dottori e 18.000 abitanti, molti dei quali anziani e sparsi in cascine isolate, il nostro compito resta difficile e i rischi aumentano».

Tante ore all’aperto e poca protezione: «Le mie riserve sono già finite, all’inizio di febbraio abbiamo ricevuto 10 camici, 10 mascherine chirurgiche e 2 modello FFP2 a testa, poi più nulla. Andiamo avanti grazie alle forniture di un’industria grafica qui vicino, che ha riconvertito la produzione. L’alternativa sarebbe andare a prendere il materiale a Padova, 80 chilometri da qua, senza neppure la certezza di trovarlo».

Tra i pazienti di Paola ci sono già stati 3 casi positivi mentre lei è risultata negativa al tampone e, visite a parte, adotta le stesse precauzioni dei suoi concittadini. «Staccare, però, è impossibile anche quando sono a casa mia. Il telefono squilla quasi ininterrottamente, sere e weekend compresi. Ci sono da tenere in piedi gli incontri ambulatoriali e specialistici più urgenti, perché un’ernia non la puoi certo tastare via Skype e un cardiopatico necessita di assistenza costante, anche se ora l’emergenza è il Covid-19. Senza contare chi ha bisogno di assistenza psicologica o gli incidenti domestici che si sono moltiplicati perché in quarantena tutti si sono messi a fare i lavori di casa senza esserne in grado». E l’immagine le strappa l’unica risata del giorno, appena prima che il cellulare ricominci a suonare.

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In Emilia Romagna

«La telemedicina aiuta tanto, ma serve anche empatia»

«Il momento più duro è stato quando si è ammalata una coppia di miei pazienti anziani: l’epidemia era scoppiata da poco. Una notte lui ha avuto una crisi respiratoria ed è stato portato via dal 118, ma è arrivato in ospedale già senza vita. Sua moglie è rimasta a casa isolata, con la febbre alta e la paura di morire. La regola era di seguirla al telefono, nemmeno i suoi figli potevano andare da lei. Per giorni ci siamo sentite ogni ora, controllavamo la temperatura e il respiro, cercavo di starle vicino. Ora per fortuna è stata ricoverata in ospedale».

«Ricevo fino a 90 chiamate al giorno. I pazienti elencano i sintomi, poi chiedono: “Mi dica che non è coronavirus”. Io non ho l’equipaggiamento per andare a visitarli a casa»

Felicetta Lanzoni, 65 anni, è medico di famiglia a Medicina, Comune di 17.000 anime del Bolognese che fa parte di una delle zone rosse dell’Emilia Romagna. Fino a poco più di un mese fa le sue giornate lavorative si dividevano tra ambulatorio e visite domiciliari. Ora, anche se i contagi si sono quasi fermati e si inizia a respirare, è lo squillo del telefonino a scandirne il ritmo. «Ricevo 80-90 chiamate al giorno, dalla mattina prestissimo fino a sera tardi, e il cellulare resta acceso anche nel weekend» racconta. «La maggior parte dei pazienti mi parlano dei sintomi del virus: sanno che devono avvertire i medici di famiglia anche se hanno solo 37 di febbre. Hanno paura, a volte dopo avere elencato i sintomi mi pregano: “Mi dica che non ho il Covid”. Non posso visitarli, solo chi ha protezioni di un certo tipo può entrare a casa dei contagiati, e bisogna essere almeno in 2 per vestirsi e svestirsi. Io mi occupo di un questionario telefonico che poi invio all’equipe dei medici del territorio. Nei casi sospetti vanno subito a controllarli, procedono con il tampone e i farmaci per la terapia a base di antivirali. È la strategia adottata dalla Asl e funziona. Quando stanno meglio siamo noi a seguirli, ma sempre al telefono. Tra i miei sono già una ventina i positivi».

Anche per gli altri le visite sono centellinate. «Le mascherine ci sono arrivate, ma per precauzione indosso anche uno schermo in plexiglas regalato da un mio paziente. Sembro un saldatore» dice ironica. I protocolli di telemedicina, in Emilia Romagna, più che in altre regioni, contribuiscono a diminuire un po’ la pressione sui medici di base anche quando non si tratta di coronavirus ma solo della necessità di fare fronte alla routine quotidiana. «Le videochiamate rappresentano un aiuto importante» conferma la dottoressa. «Proprio ieri ho diagnosticato una lombosciatalgia a un mio paziente: sua moglie faceva da operatore, io chiedevo a lui di fare dei movimenti. Abbiamo costruito una nuova routine, ma manca il contatto umano». Perché in molti casi creare empatia va di pari passo con diagnosi e somministrazione delle cure. «Giorni fa ha chiamato una signora molto avanti con l’età e mi ha detto: “Dottoressa, quand’è che potrò venire da lei?”. Anch’io ho voglia di rivedere i miei vecchietti».

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