Cos’è la terapia al plasma, pro e contro

La terapia al plasma consiste nell’infusione di plasma da persone guarite dal COVID-19. È un intervento molto utile ma non è la terapia risolutiva. Non va bene per tutti e non è così semplice da eseguire. Qui lo spieghiamo bene con l'aiuto degli specialisti

In attesa di un vaccino e mentre proseguono le sperimentazioni di cure contro il COVID-19, si parla molto della sieroterapia o immunoterapia. Si tratta di infusioni di plasma prelevato da persone guarite dal contagio da coronavirus su pazienti ancora malati, per poter aumentare la quantità di anticorpi e arrivare a una guarigione. Ma occorre cautela e soprattutto chiarezza: gli studi sono ancora in corso e non si tratta di una terapia somministrabile a chiunque né con facilità. Ecco in cosa consiste, e quali sono vantaggi e limiti secondo gli esperti.

Cos’è la terapia al plasma

Il procedimento è semplice: si tratta di prelevare da pazienti guariti da COVID-19 il plasma, ossia il sangue senza globuli rossi, bianchi e piastrine (in pratica solo la parte liquida) e di utilizzarlo, tramite infusione, a persone malate. «È un vero e proprio trapianto di organo, perché viene trasferito del tessuto. L’obiettivo è di aumentare nei malati la quantità di anticorpi, per permettere di contrastare la malattia e arrivare a guarigione» spiega Andrea Crisanti, virologo e direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova. 

L’efficacia

Al momento sono ancora in corso studi per valutare l’efficacia della sieroterapia in diversi ospedali e centri specializzati nel mondo, ad esempio in Cina, dove avrebbe già dato risultati positivi. Anche in Italia si sta testando, ad esempio al Policlinico San Matteo di Pavia, a Lodi, Cremona e al Carlo Poma di Mantova, dove una donna di 28 anni incinta è guarita lo scorso 21 aprile. Tra i sostenitori dell’efficacia di questa terapia c’è lo pneumologo Giuseppe De Donno, che in un post su Facebook ha scritto: «La fase di test è ultimata e la relazione che uscirà a breve sarà sorprendente. Quindi la cura esisterebbe e avrebbe costo quasi zero. Unico limite è che servono donatori, ma con la rete dell’AVIS questo è possibile».

Perché se ne discute

Le parole del medico di Mantova hanno scatenato le polemiche, in particolare con il virologo Roberto Burioni che ha messo in guardia da possibili rischi di trasmissione di altre malattie, sui costi della terapia, che non sarebbero così contenuti come sostiene De Donno, e su altri limiti come il fatto che non potrebbe essere somministrata a chiunque. 

I limiti

«Dal punto di vista tecnico è una procedura di immunoterapia passiva ed è già comunemente usata. Ad esempio, in caso di incidenti gravi si fa una vaccinazione antitetanica e si procede con una trasfusione di immunoglobuline, che non sono altro che anticorpi. Quanto all’uso per curare il COVID-19, sicuramente stanno emergendo alcuni limiti. In particolare non tutto il plasma delle persone guarite può essere usato: non tutti sviluppano anticorpi e anche chi lo fa non è detto che ne abbia in quantità giusta o che questi siano immunizzanti, dunque efficaci contro la malattia» chiarisce Andrea Crisanti.

Procedura complessa

«Un altro aspetto da non sottovalutare è che per prima di usarlo, il plasma iperimmune va testato per dimostrare che sia sterile, quindi che non contenga agenti patogeni che possano causare altre malattie. Insomma, si tratta di una procedura complessa, che non tutti i laboratori sono in grado di eseguire. A Padova noi lo possiamo fare e lo stiamo facendo anche per conto di altre aziende ospedaliere sul territorio italiano» spiega Crisanti.

I costi e la fattibilità

La terapia, dunque, ha procedimenti che richiedono tempo, accuratezza e anche costi. Secondo De Donno si limiterebbero a 82 euro «che sono il costo della sacca, del trattamento in laboratorio del plasma e del personale ospedaliero, più o meno quanto gli integratori per la palestra» e un aiuto potrebbe venire dai donatori e in particolare dalla rete AVIS.

«Teniamo presente, però, che le donazioni sono su base volontaria, quindi pur potendo contare su un numero ipoteticamente elevato di guariti dal COVID-19 non tutti sarebbero disposti a donare. Generalmente solo circa il 30/50% dei donatori è idoneo: per esempio non lo è chi ha una malattia infettiva come l’HIV, l’Epatite C o A. Vanno poi verificati sia la compatibilità di gruppo sanguigno, sia il numero di anticorpi sviluppati contro il COVID e l’efficacia. Insomma, Il numero di coloro di cui si potrebbe utilizzare il plasma, si screma ulteriormente» spiega Crisanti. Secondo Roberto Burioni «in generale due guariti riescono a curare un malato, ma anche con una proporzione uno a uno voi capite che non si va molto lontano» come spiegato su MedicalFacts.it.  

Ci sono rischi?

«Non abbiamo registrato alcun effetto collaterale. Il plasma è sicuro» ha rassicurato De Donno, ma per Burioni «non è una pratica priva di controindicazioni». Il virologo sostiene che, oltre a non escludere il rischio di trasmissione di altre malattie tramite il sangue va prestata attenzione ai processi di coagulazione che potrebbero essere alterati: «In un paziente COVID-19 dove questa funzione appare disturbata, bisogna avere particolare cautela» ha spiegato. «Da questo punto di vista mi sento di dire che, così come con le normali trasfusioni, anche in questo caso sono eseguite analisi molto rigorose. A maggior ragione in questo caso va accertata l’assenza di agenti patogeni, ma si tratta di operazioni di routine nel caso di donazioni di sangue» dice Crisanti.

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