Coronavirus farmaci mascherina

Coronavirus: i farmaci che ci cureranno

Tutti pensano al vaccino per il coronavirus, ma forse la strada che ci porterà presto ad avere sempre più guariti e meno persone in terapia intensiva è un’altra. E sfrutta medicinali che fino a oggi sono stati usati per altre malattie. Qui parliamo anche del test ultrarapido che arriverà a breve

→ TRA POCHE SETTIMANE ARRIVERÀ IL TEST ULTRARAPIDO

C’è già una nuova apparecchiatura che permette di conoscere la positività al coronavirus in un’ora anziché 4-5, come accade ora con il tampone. A provarla sul campo sono stati centri internazionali tra cui lo Spallanzani di Roma e il San Matteo di Pavia. È un test molecolare: il campione prelevato dalle narici viene scansionato da un computer che sa rilevare tutte le varianti genetiche attualmente conosciute del Covid-19. Ora è stata richiesta l’approvazione rapida alla Fda, l’ente americano per l’approvazione di farmaci e tecnologie sanitarie. E in poche settimane il nuovo test ultrarapido dovrebbe essere disponibile.

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Vecchi farmaci usati in nuovi mix

Il primo tentativo “empirico” di cura in Italia contro il coronavirus è stato con due farmaci, un antiretrovirale usato per l’Hiv e un antimalarico, la clorochina. Questo mix è stato utilizzato all’Istituto Spallanzani sulla coppia di turisti cinesi e sull’italiano rientrato da Wuhan: erano i primi tre pazienti trovati positivi al virus e ricoverati. Ma da allora la ricerca ha fatto passi avanti e, se è vero che non ci sono ancora nuove molecole specifiche per il coronavirus, è altrettanto vero che i ricercatori hanno scoperto come principi attivi già usati per altre malattie possano essere “riciclati” per la cura del Covid-19.

«Oggi, rispetto all’inizio dell’epidemia, conosciamo meglio la struttura del virus e questa è un’informazione importante che ci sta portando a sviluppare le terapie» esordisce Stefano Vella, professore di Salute globale all’università Cattolica di Roma e rappresentante per l’Italia del programma Horizon Europe, progetto per la ricerca e l’innovazione che coinvolge tutti i Paesi europei e che in questo momento di emergenza sta impegnando risorse per lo studio del coronavirus.

Professore, secondo lei arriveremo a una cura velocemente?

«Ce la stiamo mettendo tutta. La Commissione europea ha stanziato circa 45 milioni di euro nell’ambito del Programma Horizon 2020, proprio perché vengano trovate nuove strategie di cura in tempi rapidi. E ha valutato idonei 17 filoni di ricerca. È un bel progetto, che unisce le forze di enti pubblici e privati e delle aziende farmaceutiche, in una sinergia probabilmente mai vista prima d’ora. Le faccio un esempio. Si sta mettendo a punto una piattaforma di supercalcolo che contiene una biblioteca di miliardi di principi attivi. Confrontando il profilo della proteina del virus con queste molecole, la piattaforma è in grado di selezionare i farmaci più indicati e di metterli a disposizione della comunità scientifica. E lo può fare in tempi rapidissimi, inimmaginabili sino a ieri». 

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Ci racconta le cure che si stanno già usando sui malati?

«Ci sono principi attivi già molto promettenti, al punto che l’Agenzia del farmaco italiana ha dato il permesso perché vengano usati da tutti gli ospedali del nostro Paese che ne facciano richiesta. Per esempio, il Remdesivir che è stato già somministrato a diversi pazienti: è un antivirale che inizialmente era stato sviluppato per combattere Ebola e che in seguito si è dimostrato attivo contro la Sars e la Mers, due virus che fanno parte della famiglia dei coronavirus, come il Covid-19. Sull’uso di questo principio attivo ci sono anche due studi programmati in Cina e uno negli Stati Uniti: si sta valutando la sua capacità di diminuire la produzione di RNA virale, cioè di virus nel sangue, e di spegnere l’attività dell’infezione, con un miglioramento dei sintomi, compresa l’apnea».

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In questi giorni si parla molto di un altro principio attivo usato contro l’artrite reumatoide. Come funziona?

«Il medicinale a cui lei fa riferimento si chiama Tocilizumab e, a differenza di quelli di cui abbiamo parlato finora, non va ad agire direttamente sul virus, ma potrebbe arrestare la tempesta infiammatoria causata nei polmoni. Oggi si sa infatti che, in caso di polmonite da coronavirus, il sistema immunitario reagisce rilasciando un numero massiccio di molecole chiamate citochine che possono danneggiare gli organi in maniera irreparabile. Il farmaco sembra funzionare proprio contro queste particolari molecole, rendendole in un certo senso inattive. In Italia i primi a usarlo sono stati l’Istituto Pascale di Napoli e altri centri a Milano e a Bergamo. Però bisogna fare molta attenzione nel fornire queste notizie. È vero che ci sono risultati positivi, ma ci vorrà tempo per avere un’indicazione definitiva».

Significa che sono solo tentativi?

«No, significa che al momento non esiste “la” cura, ma ci sono farmaci che nelle forme gravi della malattia potrebbero limitare l’utilizzo della respirazione assistita. Oggi però non possiamo ancora dire che attraverso l’uso di terapie come queste possiamo evitare che i pazienti vengano intubati e collegati al respiratore. Siamo ancora agli inizi. Proprio in questi giorni l’Istituto Pascale sta arrivando a risultati positivi sui primi malati».

I laboratori del Migal Research Institute in Israele

I laboratori del Migal Research Institute, in Israele: qui si lavora al vaccino contro il coronavirus

Quanto è vicina la realizzazione di un vaccino?

«La notizia che ha fatto il giro del mondo qualche giorno fa è stata quella del Migal Research Institute in Israele, che ha dichiarato di essere a un passo dal risultato, ma non è così. Al momento hanno sviluppato un vaccino contro il virus della bronchite infettiva, un ceppo di coronavirus che colpisce il pollame e che, come sottolineano i ricercatori, ha una somiglianza elevata dal punto di vista genetico con il Covid-19».

Quindi devono testarlo ancora sull’uomo?

«Sì. Per quanto le autorità siano desiderose di accelerare i tempi, il vaccino deve osservare l’iter che prevede diversi test clinici, indispensabili per garantirne la sicurezza. Al momento tutte le ricerche sono in fase di studio sugli animali: da qui al via libera per l’utilizzo, trascorreranno almeno 18 mesi».

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