Covid: epidemia finita, basta con l’ansia sui contagi

È l'opinione del virologo Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, che ci spiega come leggere i contagi, perché non dobbiamo fare allarmismo né temere la riapertura delle scuole e chi va sottoposto a tampone

«I bambini non si ammalano, lo prova uno studio inglese molto corposo, condotto su 1 milione 600 mila giovani sotto i 15 anni. Solo 6 sono risultati positivi. Che possano contagiare è possibile, ma non sicuro». A dirlo è il professor Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, città duramente colpita dall’epidemia la scorsa primavera. Eppure l’esperto, ritenuto dall’H-index uno dei migliori ricercatori al mondo per livello accademico e rilevanza degli studi nel mondo scientifico, esorta a non farsi prendere dall’ansia: «In Italia l’epidemia, intesa come prima ondata, è finita e non dobbiamo temere la seconda, perché non necessariamente ci sarà. Piuttosto entriamo in una fase di sorveglianza. La situazione è dinamica, ma se guardiamo ai numeri non ci sono dubbi: i morti di maggio e di giugno sono stati persino inferiori rispetto a quello dell’anno precedente» dice Remuzzi.

Contagi: i positivi sono classificati come Covid, ecco perché salgono

«È vero che assistiamo a un aumento dei contagi, frutto delle vacanze, di una maggiore mobilità, della frequentazione delle discoteche e di assembramenti, ma credo che la situazione si possa gestire prestando attenzione. Oggi le terapie intensive non sono al collasso come durante l’emergenza sanitaria. Su 100 pazienti in rianimazione, non tutti sono Covid, perché chiunque entra in ospedale adesso è sottoposto a tampone. Ciò che accade è che, se positivi, vengono classificati come Covid anche se non lo sono. Su 8mila posti per cure intensive, comunque, rappresentano circa l’1,5%. Piuttosto, adesso siamo in grado di fare un maggior numero di tamponi, oltre 100mila al giorno. Ma non dobbiamo testare tutti: si devono fare dove servono davvero, per esempio nelle RSA, o a chi è in contatto col pubblico, a chi è tornato da zone a rischio, a chi ha sintomi o agli insegnanti» spiega il medico, unico italiano ad essere membro del Comitato di redazione di riviste come The Lancet e New England Journal of Medicine.

Scuola: va riaperta e senza ansie

Eppure gli insegnanti sembrano preoccupati. «Sotto i 15 anni le evidenze scientifiche non lasciano dubbi su un livello di rischio contenuto. Ma non serve allarmismo neppure coi più grandi, ai quali piuttosto si deve spiegare la necessità delle tre misure base: mascherine, distanziamento e lavaggio delle mani. Non occorre generare allarmi. In Germania hanno chiuso alcune scuole, ma si è trattato di casi limitati su un totale di 8/10mila istituti tedeschi: una situazione gestibilissima. Da noi qualcosa accadrà, non è possibile pensare il contrario, ma cosa succederebbe in caso di non riapertura? Vogliamo immaginare le situazioni di disagio dei bambini costretti a stare a casa, o di una generazione che non abbia potuto completare il proprio corso di studi? Senza contare le ricadute, anche più gravi, in termini di salute sugli stessi giovani. È necessario riaprire e riprendere anche le attività produttive: un Paese in crisi economica è un Paese povero, dove crescono malattie e crisi sociali» spiega Remuzzi.

Per il vaccino è giusto aspettare e non fidarsi di chi “corre”

Il mondo farmaceutico, intanto, guarda con interesse alla corsa al vaccino anti-Covid che potrebbe essere pronto entro novembre. I risultati positivi condotti finora nella fase 3 di sperimentazione negli Stati Uniti, infatti, farebbero propendere persino per una interruzione dei test. Ma c’è da fidarsi? «No, non c’è da fidarsi. Ritengo che occorra arrivare alla fine del percorso di sperimentazione per essere certi dell’efficacia e della sicurezza del vaccino. L’idea che possa essere prodotto entro novembre negli Usa (prima delle elezioni) è molto pericoloso ed è triste che la politica utilizzi la medicina per i propri interessi» risponde Remuzzi che sottolinea altri aspetti legati al vaccino: «Una volta terminata la sperimentazione, il vero problema sarà la distribuzione su larga scala: occorrerà una cooperazione tra le aziende perché siano disponibile teoricamente per miliardi di persone. Ma al momento si discute ancora su chi siano i soggetti a cui fornirlo per primi: se lo chiede il New York Times. L’OMS sembra vorrebbe renderne disponibile una piccola quantità per ciascun Paese, altri ritengono che i primi ad averlo debbano essere i soggetti più fragili, altri ancora pensano che una corsia preferenziale sia da riservare agli operatori sanitari e a coloro che sono maggiormente esposti. Io penso che sia importante non imboccare scorciatoie. È giusto testare sui volontari, se ce ne sono in numero sufficiente, ma non ridurre e sospendere la sperimentazione» spiega Remuzzi.

Le vaccinazioni tradizionali proteggono dal coronavirus

Quando si parla di vaccini in Italia, però, ci si imbatte anche in qualche resistenza. Eppure uno studio, condotto proprio dall’Istituto Mario Negri, mostra come le vaccinazioni tradizionali (contro morbillo, varicella, poliomielite, ecc.) possano “proteggere” contro il Covid: «La ricerca, condotta insieme al Poclinico di Milano su oltre 137 mila individui, mostra come i soggetti vaccinati hanno una percentuale di infezione da Sars-Cov2 inferiore rispetto a chi non si è sottoposto a vaccinazione. In particolare con l’antipolio e l’anti Hemophilus influenzae di tipo B è rispettivamente del 43% e 47%, del 44% con il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia, del 28% per l’antipneumococco, del 38% per la copertura contro la varicella e del 20% per quella contro Epatite A e B, se effettuate nel corso dell’ultimo anno. Naturalmente ci sono variazioni a seconda che la vaccinazione sia stata somministrata 1, 3 o 5 anni prima. Ci sono anche altri studi in questo ambito, come uno condotto da ricercatori americani, sugli effetti protettivi della vaccinazione antinfluenzale nei confronti del coronavirus» spiega l’esperto.

I linfociti T ci proteggono

«A differenza di quanto si credeva in una prima fase della pandemia, non è vero che il nostro organismo non ha la minima protezione nei confronti del Sars-Cov2. Quello che stiamo indagando è il ruolo dei linfociti T, cellule che probabilmente riconoscono nel nuovo coronavirus alcune proteine contenute anche nel vaccino e che portano a una reazione del sistema immunitario. È come se questo riconoscesse qualcosa di simile con cui sono già entrate in contatto in precedenza, tramite il vaccino» spiega l’esperto. Una buona notizia che fa ben sperare anche sulla possibilità di immunizzazione futura.

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