Non chiamateli solo videogiochi

Il nome giusto, oggi, è e-sports. Nel nostro Paese contano 1 milione di appassionati, soprattutto giovani tra i 16 e i 30 anni che per ore gareggiano al pc, da soli o in squadra. Un fenomeno in rapida crescita, ma “da maneggiare con cura”

Sara Rachid e le altre si trovano online tutte le sere alle 20:30 e giocano a League of Legends sino alle 23. Sono 5: c’è chi studia Giurisprudenza, chi ha finito la terza media, chi fa la ragazza alla pari a Londra. Hanno deciso di chiamarsi “Valkyries of Glory” perché si sentono delle guerriere. Il videogioco che le accomuna, con ambientazioni fantasy nel quale 2 squadre si sfidano con personaggi dotati di superpoteri, ha 100 milioni di giocatori al mondo ed è uno dei più diffusi tra le oltre 260.000 persone che quotidianamente, in Italia, seguono questo mondo. I numeri arrivano da Aesvi (Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani), che ha presentato il primo Rapporto sugli e-sports in Italia, definiti «una modalità di gaming competitivo e organizzato, che coinvolge singoli player o team». È un universo in costante espansione che conta 1 milione di appassionati: semplici giocatori che si ritrovano in Rete e spesso finiscono con il creare rapporti di amicizia come è successo alle Valkyries, ma anche aspiranti professionisti in uno dei settori più promettenti dell’economia online, con un giro d’affari che ruota intorno ai 350 milioni di dollari in Europa e ai 14 milioni in Italia.

Possono essere un’opportunità di lavoro

Le Valkyries non giocano ancora a livello agonistico e non partecipano ai tornei che sempre più spesso vengono organizzati e sponsorizzati da diversi brand, ma si allenano con questa ambizione, scontrandosi contro i pregiudizi e i luoghi comuni. «Capita che quando quelli della squadra rivale scoprono che siamo delle ragazze ci prendano in giro e smettano di giocare» racconta Sarah. «Per questo a volte ci fingiamo maschi». In Italia il pubblico degli eventi di e-sports è composto principalmente da maschi, tra i 16 e i 30 anni, e alle ragazze spesso vengono riservati ruoli di accompagnamento delle partite come commentatrici, blogger, giornaliste. Ma chi sono i videogiocatori di professione? Vittorio Massolo, 20 anni, di Torino, vive a Cagliari in una “gaming house”, un appartamento che condivide con altri 8 ragazzi del Team Forge, la squadra di cui fa parte. Lo incontro al Vodafone Theater di Milano durante le finali di un torneo. «Le nostre giornate iniziano tardi» racconta timidamente «perché giochiamo sino all’1 di notte. Ci svegliamo alle 11, facciamo colazione e poi ci dedichiamo agli allenamenti singoli e a quelli in team. Dopo cena altre 3 ore di gioco». Vittorio dice di trovarsi bene a Cagliari: «È come un lavoro, guadagniamo circa 300 euro al mese, vitto e alloggio sono pagati e riceviamo premi per le gare che vinciamo». In un’altra squadra c’è Davide Colonna, 19 anni, di Pescara, appassionato di Counter Strike, un gioco “sparatutto”: strategie militari, armi e morti. Davide sta finendo l’ultimo anno di Grafica e comunicazione all’università: «A 16-17 anni facevo molti più tornei» racconta. «Poi ho capito che giocando in modo competitivo mi divertivo ma mi perdevo un sacco di cose della vita. Ora sono meno bravo però sto meglio, anche con me stesso».

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Rischiano di creare dipendenza

«Come in qualunque disciplina, non tutti i ragazzi che giocano hanno le qualità per diventare dei professionisti» avverte Paolo Giovannelli, psichiatra e psicoterapeuta che dal 2010 tratta il “lato oscuro” degli e-sports. «Molti vengono fagocitati da videogiochi non particolarmente complessi che, come ammettono anche alcune case produttrici, creano dipendenza». Com’è possibile? Secondo il Rapporto Italia 2018 dell’Eurispes, nel nostro Paese 1 ragazzino su 2 è vittima di bullismo e per molti di questi la propria stanza buia illuminata da un pc acceso rappresenta un luogo protetto. «Ma sequestrare il computer quando un ragazzo si sta isolando dalla realtà può essere pericoloso» spiega Giovannelli «perché lo si priva dell’unico fattore che gli dà benessere. I ragazzi che passano molto tempo al computer sono altamente performanti in quello che fanno, anche se, non emancipandosi, rallentano la loro crescita e perdono con il tempo la possibilità di trovare un impiego». Giovannelli è il direttore di Esc, un team di professionisti specializzato nella diagnosi e cura dei disturbi causati dalla dipendenza da Internet. Ogni anno segue circa 100 casi in tutta Italia e condivide la presa di posizione dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), che ha inserito il “gaming disorder”, ovvero la dipendenza da videogiochi, nella lista delle malattie mentali. «Si parla di patologia non quando una persona gioca un paio d’ore al computer, ma quando una passione entra in maniera ossessiva e disorganizzata in quella che è la sua vita quotidiana per almeno 3 mesi. Il problema è che a volte i genitori, prima di chiedere aiuto, aspettano 3 anni» chiarisce. Un periodo infinito nel quale il ragazzo o la ragazza possono perdere anni di scuola, sviluppare paure verso il mondo esterno e stati depressivi che rendono lunghissima la guarigione. «La cura» ribadisce Giovannelli «non è l’eliminazione dello strumento, perché oggi non si può privare un essere umano della tecnologia, ma la rieducazione del paziente all’uso, che deve essere equilibrato e organizzato». Michela Sizzi, 28 anni, lo sa bene. Appassionata di videogiochi sin da quando ne aveva 4, oggi ha trovato una sua dimensione: «Gioco ancora, spesso di notte perché soffro di insonnia, ma sono anche social media manager di una squadra e scrivo di e-sports per diverse testate». Michela a 20 anni si è ritrovata vittima di una relazione violenta che l’ha isolata dal mondo e persino fatta uscire dall’università: «I videogame sono stati il mio rifugio durante la terapia. Mi hanno fatto capire cosa ero capace di fare e online ho trovato persone con cui parlare».

E ci sono anche i “serious games”

Camilla Maccagnano, 24 anni, nel 2017 si è laureata in Comunicazione digitale con indirizzo Videogiochi alla Vigamus Academy di Roma e lavora come game designer a Softcare Studios, una startup che realizza “serious games” in realtà virtuale. «I serious games vogliono intrattenere» spiega «ma anche educare. Stiamo sviluppando Tommi, un gioco per i bambini ospedalizzati malati di cancro che consente ai dottori di verificare se ci siano progressi nelle loro capacità fisiche e cognitive». Camilla ha iniziato a giocare a 6 anni: «Nell’adolescenza ho abusato dei videogiochi, ma mi sono anche serviti per aprirmi al mondo. Ho imparato l’inglese, ho conosciuto ragazzi che vivono in altri Paesi e ho trovato la mia strada in un settore che non conoscevo».

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