Nothing to worry about (Niente di cui preoccuparsi) di Melissa Spitz
Le immagini di questo articolo fanno parte del progetto Nothing to worry about (Niente di cui preoccuparsi) di Melissa Spitz, una fotografa originaria di St. Louis che ora vive a Brooklyn. Melissa nel corso degli anni ha raccolto e pubblicato (su Instagram) 6.000 fotografie in cui racconta della sua vita con la mamma, Deborah Adams, affetta da schizofrenia paranoide, depressione e disturbo bipolare.

La mia infanzia con una mamma depressa

Li chiamano gli invisibili: sono i figli di chi ha un disturbo mentale. Finora quasi nessuno si è occupato della sofferenza di questi bambini che crescono nella solitudine e rischiano di ammalarsi a loro volta. Ma adesso qualcosa sta cambiando

Parlare con Claudia, 18 anni appena compiuti, è difficile. I grandi occhi nocciola dicono molto, ma le parole faticano a uscire. «È come se avessi un gomitolo in testa». Trovare l’inizio, distendere il filo, mettere a tacere la vergogna non è facile. Un inizio di tutto, però, c’è. «Avevo 11 anni e la mamma ha cominciato a stare male. Non voleva più uscire di casa, piangeva sempre, stava giorni a letto, al buio» racconta.

La mamma di Claudia, purtroppo, soffre di depressione. E Claudia, come i suoi fratelli, da quel giorno inizia a fare parte di quelli che vengono chiamati Copmi, acronimo di Children of parents with mental illness (bambini di genitori con disturbo mentale) o “figli invisibili”.

«In Italia, il paziente con problemi psichiatrici viene seguito e curato sotto diversi aspetti della vita, in primis la malattia, poi il lavoro, le difficoltà a casa, il rapporto con il partner, ma spesso ci si dimentica che può essere anche un genitore. Così si crea una zona buia in cui questi bambini rischiano di diventare invisibili perché, se stanno male ma non così tanto da venir presi in carico dai servizi di neuropsichiatria infantile, vengono dimenticati» spiega Francesca Tasselli, psicologa e responsabile del progetto Semola per l’associazione Contatto Onlus.

Questo percorso, nato nel 2013 e attivo nei tre Centri PsicoSociali dell’Asst Ospedale Niguarda di Milano, ha proprio lo scopo di favorire il dialogo in famiglia quando c’è la fragilità di un genitore ed è strutturato in due fasi di intervento, secondo un approccio nato e diffuso nei Paesi scandinavi: una solo con i genitori e una che prevede anche il coinvolgimento dei bambini dai 6 anni in su, per poi ritrovarsi tutti insieme in un incontro conclusivo.

Un miliardo di persone è affetto da disturbi psichici

Stando ai dati, a essere nella situazione di Claudia non sono poi così pochi. L’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, stima che nel mondo ci siano un miliardo di persone affette da disturbi psichici. Di queste, circa un quarto sono genitori. In Italia il numero di bambini e adolescenti con un papà o una mamma malati supererebbe ampiamente il milione. E molti di questi ragazzi, anche se non lo danno a vedere, vivono una situazione di grande disagio. Claudia quella sofferenza, quel senso di colpa, se li ricorda bene.

«Ogni giorno mi chiedevo: “Chissà perché la mamma è sempre arrabbiata con me?”. Le raccontavo della scuola, dei miei compagni e non mi guardava neanche. Stava a letto con gli occhi chiusi. Certe volte mi sembrava addirittura di darle fastidio». «Il bambino non ha gli strumenti per dare un nome a quello che vede intorno a lui, non sa perché la mamma è sempre così triste, non lo accompagna a scuola e allora si costruisce nella testa una spiegazione che lo mette al centro e spesso gli fa credere di essere sbagliato, colpevole» spiega la psicologa.

Se da un lato, però, i più piccoli non hanno gli strumenti per darsi una spiegazione, dall’altro hanno un intuito eccezionale, ancestrale. «Dentro di me sapevo che c’era qualcosa che non andava. Lo sentivo. E per cercare di capire cosa stesse succedendo, mi mettevo dietro la porta della camera dei miei genitori quando discutevano. Ma spesso era troppo doloroso. E allora correvo a guardare la tv. Se no mi veniva da piangere» racconta Claudia. E da piangere le viene ancora adesso, che non ha più 11 anni e che sa bene qual è la malattia della sua mamma.

Prevenire le malattie psichiatriche

A pesare su questi bambini non è solo quello che sentono, quello che vedono. Ma è l’aria, l’atmosfera che respirano 24 ore su 24 in casa. Che, oltre alla predisposizione ereditaria, può avere conseguenze negative. «Come dimostrano alcune ricerche scientifiche, se il disturbo del genitore è leggero, il figlio ha un rischio fino a 4 volte più alto di andare incontro a una sofferenza psichica. Quando entrambi i genitori sono portatori di patologie psichiche gravi, questo rischio aumenta fino a 14 volte. Noi medici facciamo fatica a lavorare in senso preventivo. Eppure prevenire le malattie psichiatriche con interventi precoci sulla famiglia riduce la possibilità di trasmissione del disturbo fino al 40%» spiega Alberto Zanobio, direttore della Psichiatria 2 dell’Asst Ospedale Niguarda e referente scientifico del progetto Semola.

La consapevolezza del malessere

E uno di questi interventi è proprio la consapevolezza. La prima cosa da fare quindi è parlarne. Dare la possibilità a quei bambini “invisibili” di comprendere la situazione, di esprimere paure ed emozioni. «Spesso si sentono trascurati, soli, arrabbiati, insicuri. Vorrebbero fare mille domande, ma non ne hanno il coraggio, pensano che non sia mai il momento giusto. Ed è per questo che renderli consapevoli del malessere di cui soffrono i genitori, costruire con la famiglia una narrazione condivisa, trovare un linguaggio comune ma adatto all’età dei bambini è un importante fattore protettivo» dice Tasselli. «E per farlo partiamo dall’unicità della famiglia, dalle loro dinamiche, ci facciamo raccontare cosa succede a casa, come si parlano, se oltre ai silenzi ci sono per esempio anche dei momenti in cui si scherza, si ride, e cerchiamo di dare ai genitori gli strumenti giusti per spiegare ai figli quello che stanno vivendo».

La malattia mentale è ancora un tabù

Certo, parlarne è importante, ma se si tratta di malattie mentali è ancora un tabù, soprattutto per le famiglie. C’è sicuramente la vergogna, lo stigma sociale. Ma c’è anche la nostra concezione della famiglia come una società chiusa in cui i problemi vanno affrontati all’interno, in un clima fatto di silenzi e omertà, perché esternalizzarli significherebbe ammettere il fallimento. «È la difficoltà principale che incontriamo» racconta Tasselli. «Hanno paura a raccontare, a mostrare le loro fragilità. Temono che qualcuno gli porti via i figli. Quando, però, capiscono che nel nostro percorso non c’è una valenza giudicante ma solo un voler essere d’aiuto, si lasciano andare e spesso sono dei fiumi in piena».

E i risultati, anche se li vedremo soprattutto nei prossimi anni, fanno ben sperare. Perché a stare meglio sono sia il genitore, che riesce ad avere una relazione più morbida, sincera e amorevole con i propri figli, sia i ragazzi che tornano a sorridere, finalmente alleggeriti da un peso enorme. «La strada è ancora lunga. Rispetto ai Paesi del Nord Europa, per esempio, siamo indietro anni luce. Bisognerebbe che anche qui in Italia si cominciasse a spiegare ai figli, con le parole adatte, cosa sta accadendo quando un genitore è ammalato. In Norvegia è in capo al servizio sanitario il fatto di informare anche il figlio sulle condizioni di salute di mamma e papà, per qualsiasi malattia. Negli ospedali di Oslo ci sono stanze apposta per questo genere di colloqui e operatori formati ad hoc sul tema della comunicazione» conclude Zanobio.

L’intervista è finita. Forse perché si sente al sicuro, forse perché il muro di vergogna si è in parte sgretolato, Claudia si lascia andare. Prende il suo diario e mi legge questa frase di Confucio: “Dimmi e dimenticherò. Mostrami e forse ricorderò. Coinvolgimi e comprenderò”. Ecco, la consapevolezza, il coinvolgimento, la partecipazione, esattamente quello di cui hanno bisogno questi bambini.

Un film per capire

Nothing to worry about (Niente di cui preoccuparsi) di Melissa Spitz

Per sensibilizzare sull’importanza della prevenzione del disagio psichico di questi minori, l’associazione Contatto Onlus ha realizzato il cortometraggio I tuffi (regista Andrea Rovetta, attore Walter Leonard). Tuffarsi è magnifico, lo sanno bene i bambini, che una volta superata la paura iniziale, non smettono più. Per gli adulti invece è diverso, a volte manca il coraggio, soprattutto quando si devono lanciare da posti così difficili che fanno tremare le gambe. Ma una volta superato quel senso di vertigine, una volta abbattuto il muro del silenzio, anche per loro la paura diventa gioia, abbracci, sorrisi. Puoi vederlo su Youtube.

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