Celia Hodent, la psicologa che ha inventato Fortnite

Francese, 40 anni, è nel team di sviluppatori del gioco da 200 milioni di utenti. «Allena il pensiero strategico» dice «ma alcuni meccanismi ricordano l’azzardo: ai bambini andrebbe dosato»

«Ho preso in mano la prima console a 2 anni. I miei genitori l’hanno comprata per me, ma in fondo anche per se stessi. Non sa quanto tempo abbiamo passato a giocarci insieme…». Il sogno di ogni bambino si è materializzato nell’infanzia di Celia Hodent, psicologa cognitiva che quella passione infantile continua a coltivarla anche oggi, a 40 anni.

Francese di nascita ma americana d’adozione (vive a Santa Monica), da oltre 15 anni si occupa di esperienza d’uso – o Ux, User experience – nella messa a punto dei videogiochi. Dal 2013 fa parte del team di sviluppatori di Epic Games, i produttori del fenomeno mondiale Fortnite che ha raggiunto i 200 milioni di player in tutto il mondo. «In pratica, aiuto gli sviluppatori a creare giochi che siano comprensibili e coinvolgenti» riassume.

Lanciato in una prima versione all’inizio del 2017, l’anno scorso Fortnite ha raggiunto un successo stratosferico: in 12 mesi ha fruttato 3 miliardi di dollari e alla fine di novembre ha superato i 200 milioni di giocatori. È disponibile per ogni piattaforma, dalle console all’iPhone fino ad Android. Celia Hodent è autrice del libro “The gamer’s brain: how neuroscience and UX can impact videogame design”.

A cosa serve la psicologia nei videogiochi?

«È fondamentale perché qualsiasi battaglia virtuale, oltre che sullo schermo, accade anche nel cervello di chi la combatte. In un videogame ogni dettaglio è studiato in modo scientifico e poi testato da collaudatori. Un’icona che permette di acquisire un’abilità nuova è disegnata in modo che la mente intuisca subito a cosa serve. Il livello di complessità è tarato sulla capacità umana di controllare più azioni allo stesso tempo: se la sfida è troppo difficile, il giocatore si scoraggia e spegne tutto».

Che cosa rende questi giochi così attraenti?

«Il loro essere interattivi: ogni azione scatena una conseguenza immediata, che fa sentire la persona parte attiva di ciò che succede. In più, c’è sempre un obiettivo preciso che, una volta raggiunto, assicura una ricompensa interna, cioè funzionale al gioco stesso: per esempio, un’arma che permette di affrontare avversari altrimenti imbattibili. Vincere una sfida significa iniziarne un’altra più complessa ed è questo senso di progressione che piace al cervello».

Ci sono dei rischi?

«I pericoli nascono da meccanismi ancora poco conosciuti. Mi spiego: mettere a punto giochi così complessi è un processo molto costoso e le aziende, per sopravvivere, hanno inventato dei sistemi di monetizzazione. Questo vale soprattutto per videogame “free to play”, cioè gratuiti, come Fortnite».


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Come funzionano?

«Esiste una valuta interna virtuale che si ottiene giocando o pagando in denaro reale, e permette di acquistare le cosiddette “loot boxes”: speciali scrigni che contengono qualcosa capace di migliorare l’esperienza d’uso, come un’abilità nuova o la possibilità di personalizzare il proprio avatar. Il punto è che sono come gli album delle figurine: solo quando le apri sai che cosa c’è dentro. Una variabilità che ricorda il gioco d’azzardo e li rende irresistibili, soprattutto per bambini e adolescenti».

Per quale motivo?

«Rispetto agli adulti hanno un cervello ancora in fase di sviluppo e un autocontrollo molto più limitato. Se sono lasciati liberi, tendono a esagerare in tutto, anche quando mangiano le caramelle. Per questo, rischiano di spendere troppi soldi con le “loot boxes” o di passare il pomeriggio intero davanti allo schermo».

Che cosa dovrebbe fare un genitore?

«Informarsi, essere presente e stabilire delle regole: orari precisi e il divieto di usare la carta di credito».

Regole non accettate facilmente…

«Spesso si sottovaluta l’aspetto sociale dei videogame, che sono sempre più una piattaforma di aggregazione. I ragazzi non giocano da soli, ma collegati con gli amici. Dire “un’ora e poi spegni” non ha senso se gli altri continuano: è come portare via un bimbo da una festa quando i compagni sono ancora lì a divertirsi. I genitori devono parlarsi tra loro per trovare una regola condivisa: per esempio, si gioca il sabato dalle 3 alle 4».

Esiste un limite temporale oltre il quale è pericoloso spingersi?

«Sì e no. Per gli esperti, fino ai 5 anni il tempo davanti a uno schermo non deve superare i 60 minuti al giorno. Dopo è più difficile stabilirlo. Io dico che bisogna proibire i titoli dai contenuti violenti, ma anche scegliere quelli che all’azione abbinino la creatività. E spingere i piccoli verso stimoli differenti: benissimo i videogame, ma anche il nascondino, il tennis o i giochi in scatola».

Lei non ha mai smesso di giocare.

«In qualche modo è così. Finito il dottorato alla Sorbona di Parigi, ho capito che la ricerca non m’interessava. Ho lavorato in un’azienda che ideava giocattoli e mi sono accorta che i videogame avevano una pessima reputazione. Mi sono chiesta: se la meritano? Da lì ho scoperto che a dosi giuste e se concepiti bene, aiutano a crescere, perché per esempio allenano la pazienza e stimolano il pensiero strategico. Se avessi dei figli, seguirei l’esempio dei miei genitori: giocare tutti insieme, anche davanti a uno schermo».

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