Lgbt: arrivano le toilette neutre

Il 17 maggio è la Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia. Se l'Italia è molto indietro a livello europeo nel rispetto dei diritti delle persone Lgbt, nel concreto arrivano segnali positivi: dalle toilette neutre ai documenti rispettosi delle famiglie omogenitoriali. Ecco alcune best practise

Quanto al rispetto dei diritti umani delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, su 49 Paesi europei l’Italia è al 34esimo posto. Nel 2018 era al 32esimo. Dopo di noi, solo il blocco dei Paesi ex sovietici, insieme ai microstati Liechtenstein, San Marino e Monaco. Una fotografia oggettiva della difficile situazione del nostro Paese, raccontata dalla Rainbow map, la mappatura europea dell’affermazione dei diritti delle persone Lgbt – lesbiche, gay, bisessuali e transgender (realizzata dall’Ilga, la costola europea dell’International Lesbian & Gay Association).

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Ma se non facciamo bella figura a livello europeo, e in casa nostra paghiamo lo scotto di una politica che si nutre di un linguaggio violento e discriminatorio, nel micro territorio c’è un’umanità in fermento, dove i diritti civili delle persone Lgbt man mano si fanno spazio. Piccoli cambiamenti capaci di scavare strade nuove. Ecco alcune “best practise” italiane.

I bagni neutri negli uffici pubblici di Reggio Emilia

La prova di questo cambiamento in atto, nonostante tanti segnali contrari a livello politico, è un’iniziativa unica in Italia: un Protocollo operativo che mette d’accordo tutte le istituzioni a livello comunale, con 88 azioni per combattere pregiudizi e luoghi comuni. Per la prima volta, hanno lavorato insieme i Comuni, le associazioni per i diritti Lgbt, la scuola e l’università. Il risultato è una serie di misure concrete tra cui le toilette neutre, accessibili a tutti senza distinzioni di genere, che ora sono arrivate per la prima volta all’interno delle istituzioni. Tutto questo succede a Reggio Emilia, il primo Comune ad aver celebrato le unioni civili tra persone dello stesso sesso. «È un passo avanti importante verso il riconoscimento dei diritti civili di tutti. Perché aggiungere diritti non vuol dire toglierne» spiega la psicoterapeuta Margherita Graglia, coordinatrice del Tavolo Interistituzionale per il contrasto all’omotransnegatività e per l’inclusione delle persone Lgbt del Comune di Reggio Emilia. «La toilette è solo una delle tante azioni messe in atto, perché anche un gesto quotidiano come quello di andare in bagno in un locale pubblico può mettere a disagio chi ha un’identità anagrafica non conforme al proprio aspetto esteriore. Nei nostri uffici pubblici, invece, una semplice targhetta indica i bagni “gender free” – quindi per tutti – oppure si prevede la possibilità, per chi sta cambiando sesso, di accedere al bagno di genere verso cui è in transizione. Toilette a parte, è la prima volta che tutti gli enti di un unico territorio si impegnano a contrastare i sentimenti e i comportamenti negativi verso le persone gay e transessuali».

I nuovi documenti e la formazione dei dipendenti

Ma non ci sono solo i bagni. Le iniziative sono tante e coinvolgono Comune, Provincia, Tribunale, Istituti Penali, Usl, Università di Modena e Reggio, scuole dell’infanzia e nidi. «Sono previsti l’uso di un linguaggio rispettoso dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nei documenti e l’uso di una modulistica che negli asili nido tenga conto dell’esistenza delle famiglie omogenitoriali, con due mamme o due papà» racconta la dottoressa Graglia. «E, ancora, l’Azienda sanitaria locale e il Comune hanno adottato la misura dell’”Alias”: i dipendenti in transizione di genere potranno avere il loro nome elettivo, cioè il nuovo nome nel cartellino identificativo o nell’indirizzo di posta elettronico. Alla base di questa rivoluzione epocale, la formazione – obbligatoria – per i dipendenti di tutte le istituzioni». Il cambiamento è culturale e parte dai singoli, dall’educazione al rispetto.

La legge regionale sulle pari opportunità

Nonostante la classifica europea che ci vede retrocedere, l’Italia quindi sta cambiando. Sono i bisogni che emergono dal basso a indirizzare la politica. Questo protocollo infatti è il risultato di una proposta di legge di iniziativa popolare che proviene dai consigli comunali di Bologna, Reggio Emilia e Parma, tutti impegnati in proposte concrete nella lotta contro le discriminazioni. La loro proposta di legge ha battuto sul tempo l’approvazione di una legge più ampia, quella regionale per le pari opportunità a cui si lavora da tempo, al momento ferma. Roberta Mori, presidente della Commissione parità e diritti delle persone in Regione, è la madrina della legge e da sempre impegnata nella difesa dei diritti civili. Quali sono i punti fondamentali di quella che potrebbe diventare la prima legge che stabilisce la parità dei diritti civili a tutti i livelli delle persone Lgbt? «Innanzitutto la formazione di insegnanti, operatori socio sanitari e dipendenti comunali» spiega la relatrice di maggioranza del testo. «Bisogna saper riconoscere un ragazzino con un’identità di genere in transizione, prenderlo in carico, dare supporto alla famiglia. Occorre saper parlare con le famiglie omogenitoriali, sapere come registrare i bambini, capire come approcciare per esempio le persone intersessuali, quelle che hanno dentro di sé il biologico del femminile e del maschile (i genitali doppi, per esempio). Su questi fronti si misura il grado di civiltà di un Paese».

Le azioni concrete dell’Università Federico II

Il fatto è che quando in Italia si parla di inclusione, per abitudine ci si riferisce al genere (quindi alle donne) e alla disabilità. Invece l’integrazione è un processo di sviluppo delle organizzazioni che include  la diversity, quindi i diritti delle persone Lgbt e di quelle con religione differente. A Napoli ci lavorano da anni. Il Centro di ateneo Sinapsi all’interno dell’Università Federico II è un’eccellenza europea. È nato per favorire l’inclusione degli studenti con disabilità e DSA ma oggi ha anche una sezione che promuove la lotta alla discriminazione e la cultura delle differenze, con iniziative e progetti concreti non solo in università, ma nell’intero territorio. «Tutto parte dalla formazione e dall’informazione corretta» dice Anna Lisa Amodeo, docente di psicologia clinica e responsabile della sessione antidiscriminazione e cultura delle differenze del centro Sinapsi all’Università Federico II di Napoli. «Promuoviamo corsi obbligatori per il personale amministrativo e i docenti e workshop per gli studenti. Loro stessi diventano “Antenne satelliti”: sono parte attiva di un osservatorio che monitora i comportamenti dei ragazzi, le frasi, gli atteggiamenti discriminatori e li segnala, dando poi vita a workshop in cui si restituiscono questi stessi risultati coinvolgendo e trasmettendo il valore della cultura della differenza. Grande attenzione è dedicata alle persone transgender: la carriera “Alias” permette agli studenti con identità di genere in transizione di accedere agli esami e avere i documenti con il nome elettivo. L’obiettivo è non far sentire a disagio sia i docenti sia i ragazzi, tutelandoli dalle microaggressioni che sono forse peggiori di quelle fisiche: sguardi, battute, gesti discriminatori che mettono a rischio la loro carriera universitaria». A disposizione dei ragazzi, un blog

Ma il centro Sinapsi è unico nel suo genere per uno sportello dedicato all’ascolto e al supporto delle persone transgender e di chi subisce bullismo omofobico, non solo studenti ma chiunque si avvicini con i propri problemi. «È una specie di consultorio, dove forniamo consulenza psicologica e legale con l’aiuto di una persona transgender che possa capire bisogni simili ai suoi. E siccome dietro a una persona in transizione ci sono sempre i genitori (non dimentichiamoli!), ospitiamo la sede campana di Agedo (Associazione Genitori di Omosessuali), l’associazione che riunisce i genitori alle prese con il coming out dei figli» prosegue la dottoressa.

Non stupisce che Sinapsi, mantenendo fede al suo nome, sia diventato il centro di riferimento regionale per diffondere in modo capillare la cultura della diversity: collabora con le scuole di ogni ordine e grado, la pubblica amministrazione e la polizia municipale. «Ci siamo dotati di una guida, che tutti possono trovare in università, all’uso dei termini politicamente corretti per trattare con le persone Lgbt» spiega la professoressa Amodeo. «Per esempio, “Gay” non è un sostantivo ma un aggettivo, quindi si dovrebbe sempre accompagnare ad altri nomi: “coppie gay”, “persona gay”, oppure “lui è gay”. Non “Un gay”. “Preferenza sessuale” è un termine scorretto: meglio “orientamento sessuale”. Meglio non dire “Ha ammesso di essere gay” ma “È una persona dichiaratamente lesbica”. E così via». Questione di sfumature? Non proprio. L’odio e la discriminazione si nutre di parole. Quello che diciamo costruisce la nostra identità e quella degli altri. Il linguaggio ha un potente impatto sulla costruzione della realtà e, quindi, anche dello stigma e della discriminazione.

Centro Sinapsi: qui i contatti.

Le aziende comunicano sempre più l’inclusione

Il clima sta cambiando anche a livello aziendale. Più le aziende comunicano in modo inclusivo, più piacciono. «Non esiste ritorno negativo nell’essere inclusivi, esiste solo nel non farlo» dice Francesca Vecchioni, che ha fondato l‘associazione Diversity, impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione. «Oggi i consumatori sono attratti sempre di più verso le aziende che comunicano in modo inclusivo. E le consigliano agli altri». Un ritorno preziosio per i brand, che si può misurare in modo oggettivo grazie al Diversity Brand Index, un sistema di valutazione promosso dall’associazione in collaborazione con Focus Management, società di consulenza strategica. In pratica, si misura il feedback che i consumatori percepiscono rispetto ai brand che promuovono la diversità e e l’inclusione. I dati sono incoraggianti. Rispetto al 2018, le aziende che investono su diversity e inclusion oggi sono il 20 per cento (nel 2018 erano il 16 per cento). I brand percepiti come inclusivi aumentano del 15 per cento e del 17 gli italiani che si rivelano impegnati sul tema diversity. Il 74 per cento dei consumatori in Italia sono sensibili a messaggi di diversity e inclusion del brand; e i brand che investono su questi messaggi registrano un aumento del 20 per cento dei ricavi (rispetto ai brand non inclusivi). Comunicare in modo inclusivo, insomma, non è solo una scelta etica, ma anche una strategia vincente sul piano del guadagno. «Non dimentichiamo però che le aziende hanno una grande responsabilità. Creano benessere economico ma anche sociale. Fanno cultura» conclude Francesca Vecchioni. Il cerchio si chiude: sono le persone, dal basso, a orientare i cambiamenti, anche a partire dai consumi.

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