Perché maestra sì e prefetta no?

Anche a Milano cambierà il linguaggio usato negli atti amministrativi e nei moduli, in nome dell’uguaglianza tra donne e uomini: diremo assessora, prefetta, avvocata. Perché per certe professioni si usano già parole femminili e per altre no? Il punto sulla situazione italiana

Assessora e non assessore. Revisora dei conti al posto di revisore, direttrice e non solo direttore. Sindaca, anziché sindaco, se e quando a Milano verrà eletta una donna. Anche la giunta del comune di Milano si accoda alle amministrazioni e alle istituzioni apripista – Miur, enti locali, tribunali, aziende sanitarie – e approva le “Linee guida per l’adozione della parità di genere nei testi amministrativi e nella comunicazione istituzionale”, direttive da applicare a Palazzo Marino e in aziende municipalizzate e società partecipate.

Riscritti e ristampati atti e moduli

Negli atti, nelle domande precompilate e nei documenti burocratici – è la constatazione da cui si parte – “spesso il linguaggio non rispecchia la progressiva affermazione delle donne nelle professioni, nelle istituzioni e nei ruoli tradizionalmente ad esclusivo appannaggio del genere maschile”. Per questo nel capoluogo lombardo si lavorerà su più fronti. E ci vorrà tempo per cambiare rotta. Un tavolo permanente dovrà diffondere una maggiore consapevolezza del divario di genere e una cultura linguistica appropriata. Sarà attivato un programma di formazione per il personale. I testi amministrativi e l’intera modulistica destinata agli utenti verranno esaminati, revisionati e riformulati, “seguendo le indicazioni dell’Accademia della crusca”.

La violenza di genere sta anche nelle parole

Gli amministratori comunali milanesi hanno messo in conto obiezioni, resistenze, ironie, critiche. E provano a giocare d’anticipo. “Ogni volta che nel dibattito politico si introduce il tema del linguaggio si corre il rischio di una levata di scudi e di inutili irrisioni” dice Cristina Tajani, assessora alle Politiche per il lavoro, alle Attività produttive e alle Risorse umane del capoluogo lombardo. “Si dice: ‘È una questione non prioritaria, una forzatura di formule neutre’. Ma non ci si rende conto di quanta violenza ci sia nel voler declinare al maschile ruoli e funzioni svolti da donne. Dobbiamo dare la giusta visibilità alle donne dell’ente che, essendo la maggioranza, tanta parte hanno nella buona reputazione del comune e nella sua innovatività. Scrivere la realtà per quella che è, è un tema di giustizia, nulla di più”.

Il cambiamento parte dalle parole

“Occuparsi di linguaggio è un’azione molto concreta, perché non c’è cambiamento che non passi da un utilizzo consapevole di termini e parole” aggiunge l’assessore a Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data Lorenzo Lipparini. “Si affronta il tema della discriminazione a partire dagli aspetti linguistici, e si rende visibile e si valorizza il ruolo delle donne che lavorano e si relazionano al comune”.

Scelta ideologica o legittima?

Non tutti concordano. Anzi. I primi commentatori sono divisi. C’è chi considera la scelta della giunta milanese una decisione legittima, dovuta, non rinviabile. Per alcune voci contro, la strada intrapresa è “ideologica” o comunque sbagliata. Per altre ancora cambiare il lessico, e d’autorità, significa “enfatizzare le differenze e non superarle”.

Le altre iniziative per cambiare

Milano su questo fronte non è arrivata prima. A fine giugno, una dozzina di anni dopo l’emanazione delle prime direttive, il ministero della Pubblica amministrazione ha aggiornato le Misure per promuovere le pari opportunità. Un passaggio invita ad utilizzare termini non discriminatori (ad esempio nomi collettivi che includano soggetti dei due generi, persone anziché uomini) in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.). Il protocollo sottoscritto tra il tribunale di Mantova e l’ordine provinciale degli avvocati – altra iniziativa recente – sollecita operatori e utenti ad esprimersi con un linguaggio consono, non sconveniente. Rivolgendosi ad una penalista o una civilista di sesso femminile – è l’esempio portato – non si dovrebbe usare l’appellativo “signora”, per non privarla della qualifica professionale e non svilirla.

Le tappe del cambiamento: il punto sulla situazione italiana

Cecilia Robustelli è docente di Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, studiosa del linguaggio di genere, collaboratrice dell’Accademia della crusca, ex consulente del ministero dell’Istruzione (per cui ha coordinato la redazione di “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur”) e altro ancora. Per Repubblica ha firmato il volumetto “Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere”. Ed è lei a fare il punto della situazione in Italia, 32 anni dopo la pubblicazione del pionieristico “Il sessismo della lingua italiana”, scritto da Alma Sabatini per la Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità. “Dopo l’esplosione di interesse dovuta a questo lavoro, commentato però dalla stampa anche con toni molto ironici, l’attenzione pubblica al possibile impatto discriminatorio del linguaggio rallentò. Solo dopo il Duemila – racconta – l’interesse è ripreso e in un ambito forse inaspettato: quello istituzionale. Province e comuni grandi e piccoli si sono impegnati nell’operazione di ‘semplificazione linguistica’ promossa da direttive e campagne nazionali e hanno trovato nel ‘Codice di stile’ , voluto dall’allora ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese, anche la raccomandazione a usare un linguaggio non discriminante. Nel 2011 io stessa ho diretto un progetto su tema del comune di Firenze e dell’Accademia della crusca e ho pubblicato le ‘Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo’, ormai adottate da molte amministrazioni locali in tutta Italia. Negli anni seguenti la presidente della Camera Laura Boldrini si spese di persona. Ma non ebbe solo elogi e consensi. Anzi. Le resistenze ad adattare il linguaggio alla mutata realtà sociale – prosegue l’esperta – sono ancora forti, sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana”.

Difficoltà ad accettare i ruoli top delle donne

“Donne arrivate in posti chiave continuano ad essere definite – o addirittura lo chiedono! – con titoli di genere grammaticale maschile: il magistrato Ilda Boccassini, il ministro Giulia Bongiorno. Sono richieste a mio giudizio inaccettabili – sempre parole della professoressa Robustelli – perché implicano un uso scorretto della lingua italiana e rivelano una forte difficoltà ad accettare i nuovi ruoli professionali e istituzionali delle donne. Così la donna continua a restare nascosta ‘dentro’ il genere grammaticale maschile, unico per tutti e tutte (gli spettatori, i cittadini, ecc.), specialmente nel caso di posizioni prestigiose: chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, sindaco e non sindaca”.

Perché maestra sì e prefetta no?

Non sarà che certe forme femminili suonano stonate, quasi fastidiose? “Per giustificare il mancato ricorso ai termini femminili – osserva la professoressa – ci si appiglia alle motivazioni più assurde, come la presunta bruttezza delle nuove forme. Ma non è così. Ci sono vocaboli accettati da sempre al femminile. Nessuno direbbe mai ‘nuotatore’ per definire Federica Pellegrini. Maestra, infermiera, modella o cuoca non suscitano alcuna obiezione”. Davanti a ‘prefetta’ , invece, si tende a bloccarsi, a ripiegare sul maschile. Al salto di qualità nel lavoro e nella vita non corrisponde un’evoluzione lessicale, quasi mai. “Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per i titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne – prosegue l’esperta – non poggiano su ragioni di tipo linguistico, ma culturale. Esiste, è vero, un po’ di confusione su alcune forme femminili, per esempio sull’uso di termini che non variano al maschile e al femminile (se ‘giornalista’ può riferirsi a una donna, perché un uomo non si definisce ‘giornalisto’?). Però questo denota solo una scarsa conoscenza della lingua italiana: basterebbe aprire un buon libro di grammatica per trovare la soluzione”.

Il ruolo dei social

“Facebook e Twitter – è l’opinione della professoressa – hanno fatto conoscere la questione e hanno offerto a moltissime persone la possibilità di discuterne. Questo va benissimo. Ma tanti commentatori intervengono nel dibattito e nel confronto con suggerimenti superficiali, basati solo sul proprio gusto personale o su vaghe nozioni di grammatica orecchiate qua e là, che creano incertezza e confusione. Invece la linguistica è una scienza, non un’opinione. Personalmente evito di discutere il tema attraverso i social, perché è facile essere coinvolte in vere e proprie risse verbali”.

Il linguaggio amministrativo dev’essere condiviso

“Benissimo che il comune di Milano si aggiunga agli enti e alle istituzioni che hanno già scelto, attraverso prese di posizione ufficiali, di usare un linguaggio non discriminante. Ho letto che si prevede una consistente attività formativa. Sicuramente includerà anche una parte teorica e ciò mi trova completamente d’accordo.Tutte le operazioni sui testi, come ho più volte sostenuto, richiedono di essere considerate alla luce della teoria, per operare scelte consapevoli. Se nel linguaggio quotidiano le modifiche possono essere lasciate alla libertà individuale – conclude l’esperta – nel linguaggio amministrativo è necessario adottare un’impostazione condivisa, nel solco delle linee applicative già tracciate”.

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