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Violenza contro donne e minori: arriva il codice rosso

Per contrastare la violenza sulle donne e sui minori, il governo ha approvato il codice rosso: una corsia preferenziale per le denunce nei casi di violenza domestica o di genere. Ecco come funzionerà

Un “codice rosso” investigativo e giudiziario, cosi come esiste quello sanitario. Lo prevede  lo schema di disegno di legge messo a punto dal Consiglio dei ministri e trasmesso al Parlamento per la discussione e l’approvazione. Le vittime di violenza domestica o di genere – in gran maggioranza donne e minori – dovranno essere sentite dai pubblici ministeri entro tre giorni dall’iscrizione dei fatti denunciati nel registro delle notizie di reato. Sarà creato un canale prioritario.

“Codice rosso”: nuove regole in arrivo

“Si introduce un canale prioritario, già previsto per la fissazione dei processi, nella fase che segue alla decisione delle vittima di farsi avanti. Non saranno più gli inquirenti – spiega l’avvocato torinese Giulio Calosso – a stabilire se una denuncia o una querela per un reato di violenza domestica o di genere meriterà di essere trattata con prontezza oppure  potrà essere lasciata a languire tra mille altre indagini, nella speranza che il problema si risolva da sé e non si trasformi in una tragedia. Si fissano tempi stretti”.

E un’indagine non potrà essere dichiarata chiusa (cosa che avviene con un atto formale) senza aver sentito la persona offesa, atto che implica un minimo di accertamenti e di approfondimenti (in passato non sempre è andata in questo modo).

Ecco i reati da “codice rosso”

“Il disegno di legge – continua Calosso – impone una rapida corsia preferenziale alle indagini che riguardano i reati di maltrattamenti, di violenza sessuale, di stalking e di lesioni commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza. Se il Parlamento farà proprie queste nuove norme, carabinieri e polizia dovranno  trasmettere immediatamente la denuncia o la querela della vittima al pubblico ministero. Il pm dovrà ascoltare il racconto della persona offesa entro tre giorni, al fine di avviare immediatamente le indagini, da svolgere rapidamente. I risultati delle investigazioni affidate alla polizia giudiziaria, a loro volta, dovranno essere comunicati senza ritardo allo stesso pubblico ministero”.

Insomma, recependo anche quanto già scritto in una circolare Csm di maggio 2018, si prevedono “ tempi serrati per l’acquisizione delle fonti di  prova, per la valutazione della concretezza del pericolo che corre la vittima e,  in definitiva, per l’adozione delle misure cautelari che vengono richieste dal pubblico ministero e disposte dal giudice delle indagini preliminari (custodia in carcere, arresti domiciliari con o senza braccialetto elettronico, obbligo di firma in commissariato o in caserma …)”.

Decisivi i provvedimenti immediati

“A fare la differenza nella tutela della donna a rischio – ricorda l’avvocato torinese – non è il processo che arriverà a suo tempo, ma sono nell’immediato i provvedimenti concreti presi dal giudice: oltre a quelli ‘tradizionali’, l’allontanamento della persona pericolosa dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”.

Non sempre, però, la celerità produce buoni risultati investigativi e decisioni fondate. “La  nuova norma prevede che il termine dei tre giorni, quello concesso per ascoltare il racconto della vittima,  possa essere derogato se ci sono imprescindibili esigenze di tutela della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa. Bisogna ricordare – continua sempre  Calosso – che è necessario cercare e trovare riscontri alle parole della vittima. Per evitare di cadere nel tranello di denunce infondate e calunniose, la credibilità della persona offesa va verificata e confermata, alle volte anche con indagini tecniche molto lunghe. Ciò che conta, però, è che le proroghe non diventino la regola e che il ‘codice rosso’ non resti una norma semplicemente simbolica”.

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Operatori più preparati

Il ddl di ispirazione governativa prevede anche l’organizzazione di specifici corsi professionali, nelle scuole dei corpi, per poliziotti, carabinieri e personale della polizia penitenziaria. Va però ricordato che percorsi formativi ad hoc già ci sono. E che esistono procedure codificate, per interventi operativi per reati domestici e contro le donne.

Un esempio? Il protocollo Eva (acronimo di esame violenze agite), messo a punto dalla questura di Milano e esportato in tutta Italia. Un altro esempio? L’uso del sistema Sara (dall’inglese spousal assault risk assessment) per valutare il rischio del ripetersi di abusi, in situazioni concrete.

Non solo. Il codice di procedura penale impone l’obbligo di dare la priorità ai casi di reati di genere  nella  formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi.

Dal punto di vista delle donne

Tornando al “codice rosso”, accelerare i tempi è sempre un bene? A rispondere è Manuela Ulivi, presidente della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (cadmi.org, telefono 02.55015519), anche lei avvocato. “No, non è detto che sia sempre giusto. Ci sono i pro e i contro. Al centro dell’attenzione bisognerebbe sempre mettere la donna e non la volontà punitiva dello Stato. Una donna che esce o decide di uscire da una situazione di violenza – prosegue – deve avere il tempo di valutare tante cose, rimettersi in sesto, ripensare alle esperienze vissute. Il magistrato dovrebbe sentire una persona offesa solo se è necessario e quando è pronta, che siano passati tre, quattro, dieci o venti giorni dalla ricezione della denuncia. Si convoca immediatamente una donna abusata, e poi? Parliamo anche del dopo. E del prima. Le donne – rammenta Ulivi – spesso non denunciano perché hanno il timore di non essere credute. L’audizione in tempi stretti poi, le costringerebbe a ripetere storie dolorose e pesanti già dettagliate in una denuncia. Se c’è l’assistenza di un legale o di una associazione, e se poliziotti e carabinieri sono preparati, il racconto iniziale può essere più che sufficiente, con tutti gli elementi utili per le indagini”.

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Non tutti i giudizi sono positivi

In generale, sul ddl, il giudizio di Ulivi non è improntato all’entusiasmo.  Anzi. “Mi sembra una operazione pubblicitaria, di propaganda. La formazione già la facciamo, da vent’anni, assieme ad altre attività fondamentali. Siamo un punto di riferimento, possiamo mettere a disposizione il nostro know how. Invece il nuovo ddl taglia del tutto fuori i centro di violenza, anche dalla formazione. Alcune disposizioni fondamentali  e il nostro coinvolgimento – spiega ancora Ulivi – non sono concessioni dei nostri governanti, un di più. Sono scelte obbligate e dovute, necessarie per tradurre in concreto la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, recepita dall’Italia nel 2013”.

I braccialetti elettronici potrebbero servire?

Un’altra questione riguarda l’uso dei braccialetti elettronici, dei quali si è tornato a parlare dopo la tragedia di Sabbioneta (un padre ha dato fuoco alla casa dell’ex moglie e uno dei figli è morto bruciato). Quasi tutti gli esemplari in uso, insufficienti per la platea dei potenziali interessati, non sono dotati di gps: segnalano se un soggetto agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare esce da un perimetro  delimitato (la casa), ma non seguono e non monitorano gli spostamenti del portatore. A ottobre sarebbe dovuta arrivare una fornitura di modelli evoluti forniti di geolocalizzatore,  anche in funzione antistalking, in grado di rilevare i movimenti del persecutore e le possibili violazione della “zona di sicurezza” attorno alla vittima, messa nelle condizioni di rilevare la presenza dell’aggressore e dare l’allarme . Ma ritardi burocratici, legati al collaudo, stanno allungando i tempi.

Il decreto sicurezza appena approvato – è l’ultimissima novità, evidenziata dagli addetti ai lavori del Tribunale di Milano – prevede che i braccialetti ipertecnologici possano essere utilizzati per controllare che un indagato rispetti il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare.

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