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Pfas: acqua potabile inquinata anche in Lombardia

Greenpeace lancia l'allarme: dopo il Veneto, acqua potabile inquinata da Pfas anche in Lombardia. A rischio bambini e adulti. Di cosa si tratta?

Non c’è solo il Veneto ad avere problemi di inquinamento dell’acqua potabile da Pfas, sostanze che agiscono come interferenti endocrini, potenzialmente molto dannosi per l’apparato riproduttivo, specie dei più giovani. Secondo un’indagine, condotta da Greenpeace Italia, anche in Lombardia la situazione sarebbe preoccupante. Nel 19% dei campioni di prelevata ci sarebbe presenza di Pfas e il dato sarebbe sottostimato. A Milano un campione su tre è risultato inquinato.

Acqua inquinata da Pfas anche in Lombardia

Secondo le analisi di Greenpeace Italia, dei circa 4mila campioni analizzati dagli enti preposti tra il 2018 e il 2022, circa un quinto (19%, pari a 738 campioni) è risultato positivo alla presenza di Pfas. Le province dove la positività è risultata maggiore sono quella di Lodi, con l’84,8% positivo, di Bergamo e di Como, rispettivamente con il 60,6% e il 41,2%. Nell’area di Milano un quinto delle analisi ha mostrato la presenza di Pfas anche se in termini assoluti è nel capoluogo regionale che è stato trovato il maggior numero di campioni con le sostanze inquinanti (201). A seguire si trovano la provincia di Brescia (149) e quella di Bergamo (129). Particolari criticità emergono anche nei comuni di Crema (Cr), Crespiatica (Lo), Pontirolo Nuovo (Bg), Rescaldina (Mi) e nella zona di Cantù-Mariano Comense (Co). Secondo Greenpeace, i risultati – già preoccupanti – sono comunque sottostimati perché le analisi non sono state capillari. 

L’allarme: “E’ emergenza ambientale”

“L’indagine condotta in Lombardia svela l’esistenza di un’emergenza ambientale e sanitaria fuori controllo che le autorità locali e nazionali continuano a sottostimare, nonostante sia chiaro che la contaminazione da Pfas coinvolga migliaia di persone, spesso esposte al rischio in modo inconsapevole”, ha denunciato Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. Da qui la richiesta, in tempi brevi, di una “una legge che vieti l’uso e la produzione di tutti i Pfas, insieme all’adozione di adeguati provvedimenti di bonifica e all’individuazione di tutti i responsabili dell’inquinamento”.

A breve Greenpeace Italia ha annunciato di voler pubblicare un approfondimento sulla situazione a Milano, con una mappatura delle zone più contaminate, dettagli sui quartieri del capoluogo lombardo e le rispettive concentrazioni di Pfas. L’allarme, però, si aggiunge a quello delle cosiddette mamme no Pfas, lanciato già nel 2017 in Veneto. 

Le mamme No Pfas e “l’avvelenamento silenzioso”

Sono tante, sono preoccupate e decise a non arrendersi contro quello che in molti definiscono “avvelenamento” silenzioso. Sono le mamme No Pfas che da anni si battono per un intervento urgente da parte del Governo e delle autorità locali che fermi la contaminazione da Pfas, acronimo che indica le sostanze perfluoroalchiliche. La loro battaglia è iniziata nel 2017 e 4 anni fa c’è stata una svolta importante, con i primi dati sulla presenza di queste sostanze nel sangue dei bambini di 9 e 10 anni. Dati preoccupanti, naturalmente. Gli esami indicavano, infatti, anche variazioni metaboliche analoghe a quelle riscontrate negli adulti. Ma perché, cosa sono i Pfas?

Che cosa sono i Pfas

Sono composti chimici in grado di rendere impermeabili all’acqua e ai grassi oggetti che vanno dagli smartphone alle giacche cerate. Sono usati anche nella carta da pizza e per rendere antiaderenti le padelle. Tanto utili nell’industria e nella quotidianità, i Pfas sono però sospettati di tossicità in alte concentrazioni, difficilmente degradabili, ma soprattutto ritenuti interferenti endocrini: molti studi hanno rilevato un nesso tra la loro presenza nel sangue e l’insorgenza di diverse patologie, soprattutto a carico della tiroide e del sistema riproduttivo, in particolare femminile. Da qui il primo allarme, partito dalla cosiddetta “zona rossa” del Veneto occidentale, tra le provincie di Vicenza, Verona e Padova.

I danni all’uomo creati dai Pfas

Sono inodori, incolori e insapori, si disperdono in acqua e in aria. Si ritiene che possano alterare la crescita, ridurre la fertilità e influire sul rischio di sviluppo di patologie tumorali, in particolare ai reni e ai testicoli. Ai Pfas la letteratura scientifica attribuisce anche un ruolo nello sviluppo di patologie legate alla tiroide. A preoccupare è poi il nesso rilevato da alcuni studi tra alcune patologie del feto (malformazioni congenite) e della gravidanza (ipertensione, diabete gestazionale) o nell’insorgenza della colite ulcerosa.

Gli adulti contaminati in Veneto

Il Comitato Mamme No Pfas si è rivolto ripetutamente ai vertici della Regione e poi anche ai Ministri competenti perché l’Italia fissi i propri limiti nazionali alla presenza di Pfas pari a zero, per evitare un disastro ambientale e soprattutto un’emergenza sanitaria. Lo screening effettuato in Veneto nel 2019 ha indicato valori nel sangue alterati nel 65% dei cittadini che vi si sono sottoposti. Fin da subito si era intuito che il problema rischiava di allargarsi ad altre regioni, a causa della migrazione di queste sostanze tramite i corsi d’acqua come il Po, arrivando fino al mare: “In Adriatico sono state trovate vongole con livelli di Pfas sopra la norma” spiegava Carmen Chiarello, del Comitato Mamme No Pfas, nato in provincia di Vicenza.

Quando nasce la contaminazione

Si stima che la contaminazione da Pfas riguardi circa 350mila famiglie nel solo Veneto, in un triangolo rosso tra le provincie di Verona, Vicenza e Padova. Viene da lontano ed è legata all’attività della ex Miteni, un’azienda chimica fallita nel 2018 con sede a Trissino (Vicenza), dove venivano prodotti questi composti chimici dal potere antiaderente e impermeabile, utilizzati in cartiere per zincature e concia, ad esempio per trattare le pelli, i tessuti, i rivestimenti di padelle, gli smartphone, la carta da pizza o la sciolina degli sciatori fondisti. Queste sostanze, una volta disperse nell’ambiente dopo i processi industriali, sono finite nelle acque e nella catena alimentare degli animali e dell’uomo. Utilizzati fin dagli anni ’50, ne sono state trovate altissime concentrazioni nei pesci (in alcuni casi fino a 700 volte sopra la soglia di pericolo) e nella popolazione locale.

L’allarme: livelli nel sangue oltre le soglie

già negli anni scorsi erano emersi i risultati di uno screening organizzato dalla regione Veneto, per monitorare i livelli di concentrazione di Pfas nel sangue, soprattutto dei residenti nella zona di Trissino. Su oltre 47mila lettere di invito a sottoporsi ad esami del sangue, in più di 25mila hanno risposto e nel 65% dei casi i valori di Pfas erano risultati superiori a quelli indicati dalla stessa Regione dal settembre 2017 (90 nanogrammi per litro di sangue, come somma tra i composti analoghi Pfoa e Pfos). A queste alterazioni, però, ne erano state associate altre, in particolare quelle di colesterolo e perdita di albumine, soprattutto nei soggetti più giovani e nei bambini, oltre a variazioni della pressione arteriosa.

I rischi per i bambini

“Sapevamo delle concentrazioni di Pfas negli adulti, perché la campagna regionale ha riguardato persone dai 14 ai 65 anni, ma quello che ci ha ulteriormente sconvolto sono i dati sulla popolazione pediatrica, dai 14 in giù” spiegava Patrizia Zuccato, una delle Mamme No Pfas di Montagnana, comune in provincia di Padova che fa parte della zona rossa. Dalle analisi sui nati nel 2008 e 2009 erano emersi valori molto alti per trattarsi di bambini “e per il fatto che nel sangue non dovrebbero esserci proprio tracce. Inoltre da questi screening emergono le stesse alterazioni metaboliche degli adulti”, aggiungeva Zuccato.

Le analisi avevano mostrato la presenza di quattro composti della famiglia dei Pfas (Pfoa, Pfos, Pfhxs e Pfna) in oltre il 50% dei soggetti monitorati. Tutto ciò aveva indotto la Regione a offrire un secondo controllo, gratuito, più approfondito.

Un disastro noto dai primi anni Duemila

“Quello che vogliamo è l’azzeramento della presenza di Pfas, ma anche una sensibilizzazione su questo tema. Non deve succedere più quello che è successo a noi, cioè che tutti sapevano e nessuno ci ha detto nulla. Gli enti che dovevano vigilare e potevano intervenire non hanno fatto nulla non solo nel 2013, quando è uscito il primo studio ufficiale del CNR, ma fin dai primi anni Duemila”, hanno sempre denunciato le mamme No Pfas.

Nel mirino erano finiti enti come l’ARPAV, l’Agenzia Regionale per l’Ambiente del Veneto, e la Provincia di Vicenza. Quest’ultima, secondo un report dei carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Treviso (NOE), era a conoscenza degli esiti di un’indagine condotta sul sito della Miteni, tra il 2003 e il 2009, che indicava concentrazioni di inquinanti nelle falde acquifere tra Trissino, sede dell’industria, e Montecchio Maggiore. Eppure non ha inoltrato i dati all’ARPAV né ha condotto verifiche ulteriori, come  sottolineava anche Greenpeace.

La denuncia di Greenpeace: “ARPAV sapeva”

A sua volta l’associazione ambientalista, a marzo 2019, era entrata in possesso della relazione del NOE sull’ “inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) nelle province di Vicenza, Padova e Verona” e dichiarava che “ARPAV avrebbe potuto far emergere l’inquinamento già nel 2006, quando tecnici dell’agenzia regionale intervennero presso la barriera idraulica istallata nel sito di Miteni: le operazioni di bonifica potevano partire in quel momento”.

“Per anni abbiamo bevuto l’acqua del rubinetto”

Questo dramma tutto italiano si è infilato tra le pieghe della quotidianità di migliaia di famiglie. “Avrebbero almeno potuto avvertirci della probabilità che bere l’acqua dei rubinetti potesse essere gravemente dannoso per la salute. Avremmo scelto con consapevolezza, come si fa per le sigarette: si sa che fanno male, si continuano a vendere, ma almeno c’è scritto sulla confezione” denunciava Patrizia Zuccato. “Quello che è mancato è il principio di precauzione, soprattutto nei confronti dei bambini, oltre che degli adulti: io fin da bambina ho bevuto l’acqua dei pozzi, ho problemi alla tiroide e non ho potuto avere figli biologici. Ne ho adottata una, ma quanta acqua le ho fatto bere dal rubinetto prima che si sapesse del pericolo? Quanta ne ha bevuta in mensa a scuola?” chiedeva ancora la signora Zuccato.

L’acqua contaminata entra nella catena alimentare

D’altra parte il problema dell’acqua di rubinetto riguarda anche altri usi: da quello domestico per cucinare e lavare gli alimenti, a quello agricolo, con l’impiego dell’acqua contaminata per irrigare i campi (i cui prodotti – frutta e verdura – sono poi commercializzati anche fuori dal Veneto) e per gli animali da allevamento, che a loro volta finiscono nella catena alimentare umana.

L’ipotesi di mettere al bando i Pfas

Il Comitato delle Mamme No Pfas ha sollecitato più volte il ministero dell’Ambiente e l’Unione europea, con sit in e contatti a Strasburgo e Bruxelles. Ma l’allora Ministro Costa non aveva nascosto le criticità: “A livello comunitario non c’è grande sensibilità” ha detto parlando dell’ipotesi di mettere al bando o limitare ulteriormente il ricorso a queste sostanze. “Convincere altri Paesi non è facilissimo”, spiegava. Il commissario all’emergenza Pfas, incaricato dalla Protezione civile, aveva indicato un investimento da 20 milioni per la realizzazione di pozzi nuovi e la posa di tubature per evitare di pescare acqua dalle falde inquinate.

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