Tamara Lunger: «Ho liberato la mia parte femminile»

Intervista a Tamara Lunger, tornata da una tragica spedizione sul K2 in cui tanti alpinisti hanno perso la vita, racconta come l’istinto, l’ascolto di sé e la connessione profonda con la natura l'abbiano aiutata a prendere la decisione giusta 

Tamara Lunger, 34 anni, quest’inverno ha tentato la salita al K2 invernale, uno delle imprese più estreme per chi pratica l’alpinismo sugli Ottomila. La sua spedizione non ha avuto fortuna e l’alpinista altoatesina ha preferito ritornare sui suoi passi. Pochi giorni prima di tentare l’avvicinamento alla vetta aveva scritto su Instagram: «In questo momento non mi sento davvero pronta per incontrare la dea del K2». La forza e la popolarità di Tamara stanno anche nella capacità, non comune nel suo ambiente, di raccontare i propri limiti, ammettere le difficoltà senza temere di non risultare competitiva. Un modo di affrontare la montagna moderno, femminile, lontano dall’eroismo e dalla retorica della conquista e del “no limit” a ogni costo. E che non significa avere meno passione e determinazione. La rinuncia di questo inverno le ha salvato la vita: ben 5 alpinisti di grande valore (tutti uomini e padri) che erano con lei sono morti. Anche se il 16 gennaio 2021 una squadra nepalese è riuscita per la prima volta nella storia a raggiungere la vetta nella stagione più dura, il K2 invernale resta la chimera sfuggente dell’alpinismo. Come ha detto uno degli scalatori nepalesi, non puoi salire se la montagna non te lo lascia fare. La stessa sensazione che Tamara ha provato durante tutta la spedizione. 

La montagna mi ha urlato in faccia: Vai via!

«Sono partita con il solito entusiasmo ed ero convinta di potercela fare» racconta. «Ma presto le cose mi sono diventate chiare: la montagna mi ha gridato in faccia: vai via da qui. Tutto era così difficile, la via attrezzata cadeva a pezzi, tutti i chiodi venivano fuori, le corde si consumavano in poco tempo. Già al campo base c’erano -35 gradi, ho sofferto molto il freddo, ho vomitato spesso senza riuscire a mangiare. E poi, appena i nepalesi hanno raggiunto la cima, dopo poche ore, Sergi Mingote è morto. Sono convinta che JP, John e Ali (i suoi compagni nella salita finale Juan Pablo Mohr, John Snorri e Ali Sadpara, ndr) siano riusciti ad arrivare in cima, ma si sono poi persi e anche Atanas Katov è caduto. Mentre tutto ciò accadeva mi sono chiesta: “K2 cosa ci stai facendo?!”. È stata un’esperienza brutale perdere compagni che mi erano entrati nel cuore. La prima cosa che mia madre mi ha detto al ritorno è stata: “Spero che tu non abbia perso la tua fede in Dio”. Ma no, non l’ho persa, nonostante tutto resto convinta che ogni cosa accade per un motivo e questi lutti mi indicheranno una via diversa, un cambiamento che devo ancora elaborare». 

Se non tiri fuori la tua parte femminile, ti do un anno di vita 

Tamara un cambiamento dentro di sé lo stava già realizzando, è partita per il K2 con il solito spirito positivo ed energetico e con un proposito importante. Lo scorso anno, tornata dal tentativo di salita al Gasherbrum, un’altra cima himalayana, una donna le aveva detto: “Se non riuscirai a tirare fuori la tua energia femminile, ti do un anno vita”. Una battuta che è rimasta dentro di lei e l’ha fatta riflettere sul suo approccio aggressivo. «Nella spedizione dello scorso inverno con Simone Moro ero sempre io a spingere: dobbiamo andare su, dobbiamo tracciare, dobbiamo muoverci… Era lui quello più accogliente verso ciò che accadeva, più attento e fiducioso verso la montagna» racconta Tamara. «Ho lavorato tanto su questa cosa della “femminilità” e affrontare il K2 con tutta la mia sensibilità ben all’erta era l’obiettivo più importante».

Mi sta sulle scatole quando mi dicono “sei come un uomo”

La consapevolezza che sugli Ottomila, soprattutto d’inverno, la forza è indispensabile ma il rischio di perdere la vita è sempre in agguato, Lunger ce l’aveva già chiaro da tempo. Nonostante i suoi successi alpinistici, ha conquistato il grande pubblico per una rinuncia. Nella salita invernale al Nanga Parbat del 2016, si è fermata a 70 metri dalla vetta per non compromettere la possibilità di discesa e ostacolare i compagni. «Se vuoi compiere una grande impresa non puoi rinunciare troppo presto, devi tirare fuori il coraggio e anche soffrire un po’. Però penso che sia ora che tutti si concentrino di più sull’intuizione, sul percepire se stessi in connessione con la natura. Magari gli sportivi, abituati a stare in contatto con il proprio corpo, sono avvantaggiati. Ma credo che ci sia ancora molto da fare in questa direzione. Sono convinta che sia questa la “femminilità” che manca nel mondo non solo alle donne. Noi poi siamo troppo orientate a far vedere che siamo come i maschi e più forti sul loro terreno. Ma io non voglio cambiare sesso perché faccio alpinismo. A volte ho bisogno di piangere sulla spalla di un uomo.  In questa spedizione mi hanno detto per ben tre volte “Sei come un uomo”. Se prima mi sembrava un complimento, adesso mi sta sulle scatole». 


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Il panico dei piedi congelati. Ho pensato che li avevo solo io perché sono una donna

Ascoltare il racconto di Tamara è appassionante e spaventoso, come tutte le grandi avventure: il freddo esagerato, i sassi che cadono violenti sulle cordate, il nervosismo della competizione, la commozione per le disgrazie ma anche la complicità con i compagni e la maestosità della montagna. Non tralascia i dettagli e le emozioni. Il panico per i piedi congelati nell’ultima salita, che lei credeva di percepire prima e di più “perché sono una donna” (e di cui invece soffrivano anche gli altri), il freddo incontrollabile della notte, lo shock per aver visto la caduta di Sergi Mingote a poche decine di metri e le lacrime arrivate, irrefrenabili, solo dopo due giorni.  La paura di ritrovarsi da sola a 7.300 metri quando i compagni hanno deciso di tentare comunque. Perché l’hanno fatto? Tamara non si è sentita nelle condizioni di affrontare una salita notturna, molte ore al buio oltre i – 60 gradi, con l’ansia di dover superare un crepaccio di più di due metri e arrivare su una cima che, a causa della pressione, in inverno non è come andare a 8.609 metri, l’altezza ufficiale de K2, ma addirittura a 9.000, l’altitudine degli aerei di linea. Il richiamo della cima non si spiega mai fino in fondo. L’islandese John Snorri era al secondo tentativo, il successo dei nepalesi lo aveva colpito nell’orgoglio, il pachistano Ali Sadpara sentiva la pressione dei connazionali che lo considerano un’eroe e una bandiera nazionale: cima o morte, come ai tempi delle grandi conquiste, anche per noi occidentali è stato a lungo così. «JP invece non sentiva la fregola di vincere» ha detto Lunger «era deciso a provare perché si sentiva forte ma mi aveva detto: “Sai, Tamarita, la cosa più importante è tornare dai miei bambini”».

Posso accettarmi con tutti i cambiamenti che arriveranno

È andata come è andata. Tamara dopo una notte oltre i 7000 metri ha scritto un messaggio a Juan Pablo Mohr ma non ha mai ricevuto risposta. Ha preparato i campi nella speranza che i compagni ce la facessero e ha voltato le spalle alla montagna. «Volevo arrivare subito al campo base per mangiare, dormire, non sopportavo la solitudine». Ma anche questa parte è stata complicata. Sul K2 c’era anche una spedizione commerciale con numerosi partecipanti assistiti dagli sherpa che hanno rallentato la discesa, poi è arrivata la notizia di un’altra disgrazia, la morte di Atanas Katov. Infine Tamara si è persa, nel buio, senza frontale, nel ghiaccio labirintico nella parte bassa della montagna. Ha impiegato 5 ore prima di trovare, per fortuna con un compagno, la giusta direzione. «Non salirò più un Ottomila in inverno» dice. «In questo momento penso che quando una cosa ti dà solo angoscia devi lasciarla. Non è facile da accettare perché ti vedi in un certo modo, hai aspettative su te stessa e gli altri ne hanno su di te. Ma io dopo questa esperienza ho giurato a me stessa che farò solo quello che mi fa stare bene. Posso accettarmi con tutti i cambiamenti che arriveranno». Questo non significa che Tamara lascerà la montagna. È impossibile. Lo capisci mentre racconta che mentre scendeva nell’ultimo tratto, sfinita e dopo aver perso la frontale, ha spento anche la fioca luce del cellulare “per stare in mezzo al cielo stellato e sentire un po’ di pace in quella meraviglia”. 

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