Nelle aziende arriva il manager della diversità

In Italia la figura del diversity manager è ancora poco diffusa. Eppure per le aziende rappresenta la sfida - e il business - del futuro. Gli esempi e i dati

Diversity manager cercasi. Nell’era della rivoluzione 4.0, il mondo del lavoro cambia e le aziende si interrogano: come fare business in un mondo in continua evoluzione, dove etnie, religioni e orientamento sessuale si mescolano, la popolazione invecchia e i disabili aumentano? «In Italia se ne parla da pochi anni, ma in Europa il Diversity manager è ormai realtà» spiega Valentina Dolciotti, formatrice e consulente per le tematiche di diversità e inclusione, autrice del libro Diversità e inclusione. Dieci dialoghi con diversity manager (GueriniNext, 2017). «Si tratta di una figura che lavora prevalentemente nell’ambito delle Risorse Umane, con l’obiettivo di valorizzare le differenze e creare inclusione. La diversità – di genere, età, orientamento sessuale, etnia, religione – è un fatto. L’inclusione è ciò che “fa funzionare” questo fatto. Molti studi dimostrano l’impatto positivo sui risultati di business, ad esempio, di un management misto. E le grandi aziende, ormai, sono orientate a capirlo».

L’inclusione genera business: i dati

I numeri cominciano a parlare. «Le aziende percepite come inclusive registrano un amento dei ricavi del 16,7 per cento» commenta Sandro Castaldo, docente di Marketing all’Università Bocconi di Milano e presidente del comitato scientifico del Diversity Brand Summit, il primo evento europeo (appena concluso) che mette in relazione diversity e business. «Dalle ricerche svolte, l’80 per cento degli italiani preferisce i brand più inclusivi riguardo a etnia, orientamento sessuale, età, genere».

L’inclusione sempre più decisiva per il successo delle aziende? C’è chi ci crede così tanto da seguire una politica di diversity su più fronti, come Intesa San Paolo: le iniziative spaziano dal sostegno alla leadership femminile (dal 2014 le donne quadro sono cresciute del 3 per cento) all’ageing (l’inclusione dei lavoratori over 45), fino alla parità di diritti per le coppie omosessuali. «Abbiamo firmato un protocollo sull’inclusione con iniziative anti discriminazione, che valutiamo volta per volta con il sindacato» spiega Patrizia Ordasso, responsabile delle Relazioni industriali del gruppo. «I congedi matrimoniali sono stati estesi anche alle coppie omosessuali e ai matrimoni religiosi non riconosciuti, come gli ortodossi. Per sostenere le donne in maternità, il periodo in cui si registra il picco delle uscite dal lavoro, paghiamo di più il congedo previsto per i neo papà e diamo un giorno in più di permesso alla nascita del bambino. Il prossimo obiettivo sarà trovare soluzioni per chi celebra le festività religiose in giorni feriali diversi da quelli cattolici».

I numeri per capire il fenomeno

82° il posto dell’Italia su 144 Paesi quanto a gender gap (il divario tra uomini e donne) su vari fronti dal lavoro all’istruzione (fonte: World Economic Forum 2017)

10,9% il valore del gender gap, la differenza di stipendio a favore degli uomini rispetto alle donne, a parità di lavoro (fonte: Diversity Brand Summit)

4,8 milioni i disabili in Italia nel 2020 (fonte: Censis)

800 mila i potenziali lavoratori disabili (fonte: Censis)

5 milioni gli stranieri in Italia (fonte: Istat 2018)

1 milione Le persone Lgbt in Italia (fonte: Istat 2012)

La diversità oggi va valorizzata

L’inclusione è un movimento che accompagna l’organizzazione, intesa come comunità di persone. «Non si può pensare di organizzare la vita in azienda come 20 anni fa. Occorre considerare la persona nella propria unicità e nella propria capacità di contribuzione al mondo organizzativo in cui vive. Questa è la diversità, opposta alla massificazione e all’appiattimento» dice Mauro Meanti, general manager di Avenade italia e vice presidente di Valore D, associazione di 150 aziende con la missione di promuovere e valorizzare il talento femminile nelle aziende. «Noi per esempio obblighiamo gli uomini a stare a casa 15 giorni in congedo paternità. Bisogna “creare il problema”, in modo che i capi progetto si rendano conto che l’assenza può capitare a tutti, e non è solo affare femminile. Quindi si può e si deve gestire».

La leadership del futuro è femminile

Per fortuna a poco a poco le aziende si mostrano attente, oltre al valore monetario, a quello reputazionale della diversity, convinte che la scommessa del futuro sia sulle persone. «La leadership del futuro è più vicina a caratteristiche femminili: l’ascolto, l’inclusività, la collaborazione» spiega Walter Ruffinoni, Amministratore delegato di NTT DATA Italia, azienda di consulenza nel settore informatico. «Per questo abbiamo creato il progetto NTT Donna, con l’obiettivo di raggiungere il 50 per cento di assunzioni e promozioni femminili. Nel 2017 ce l’abbiamo quasi fatta, con 235 donne su 500 assunti. Il problema è che si fatica a trovare candidate femminili perché le ragazze si tengono lontane dagli studi scientifici. Per questo lanciamo nelle scuole corsi di coding per avvicinare anche le bambine alla programmazione informatica, in cui peraltro le donne sono più portate ed efficienti degli uomini».

La questione della leadership femminile parte da lontano. In Italia solo il 22 per cento dei manager è donna, a fronte di una media europea del 29 per cento. Lo rileva lo studio di The Boston Consulting Group e Valore D “Women at the Top”, realizzato sulla base di 2.500 interviste, tra cui i principali direttori e responsabili delle risorse umane di aziende italiane e multinazionali con sedi in Italia. Un gap che inizia sui banchi di scuola, dove l’orientamento gioca ancora un ruolo centrale. Le ragazze, infatti, continuano a essere più orientate a percorsi di studio a carattere umanistico, dove l’occupazione – ad un anno dalla laurea – si ferma al 40 per cento. La percentuale di donne che trova occupazione al termine degli studi di Ingegneria balza invece al 79 per cento, sempre in un arco di 12 mesi dalla laurea.

Occorre una gestione “olistica” della diversità

Mentre molte aziende reagiscono alla crisi incentivando le uscite, alcune restano convinte che un’impresa debba generare valore e investono sulla diversity. «Valorizzare le differenze oggi è fondamentale per fare business. Voler stare sul mercato significa capire le nuove generazioni e includere chi invecchia. I nostri team sono trasversali: giovani, over 45 e over 60 lavorano insieme all’insegna del menthorship, per scambiarsi conoscenze ed esperienze» dice Valentina Sangiorgi, Chief HR Officer per Randstad Italia, multinazionale olandese che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane. L’azienda ha sottoscritto la Carta per le pari opportunità con il Ministero del lavoro: un impegno reale nella gestione delle politiche femminili. «Non abbiamo un team diversity perché l’inclusione è nel nostro Dna. Per me è normale assumere donne incinte o promuoverle durante l’allattamento. Occorre una gestione “olistica” delle diversità: da tre anni sponsorizziamo la Pride Week e abbiamo equiparato la licenza matrimoniale per i colleghi che si sposano all’estero con partner dello stesso sesso e il congedo parentale per la nascita dei bambini nati da coppia omosessuale».

E poiché la normativa sulle unioni civili è in continua evoluzione, c’è anche chi aiuta le aziende a gestire la diversity, come Jointly, che offre sevizi di welfare. «Forniamo corsi sui temi dell’orientamento sessuale in azienda e mandiamo aggiornamenti continui sulle norme di legge, da come gestire i congedi per le coppie omosessuali e le festività religiose all’assunzione dei disabili» spiega Fabio Galluccio, co founder di Jointly.

Alle aziende conviene assumere i disabili

Anche in tema di disabilità, qualcosa si muove. «Da 20 anni le aziende assumono per legge una percentuale fissa di persone disabili» spiega l’avvocato Silvia Bruzzone, direttore dell’osservatorio Chronic diseases and work adapt, osservatorio nato da un progetto europeo sulle patologie croniche. «Da allora si è sempre ragionato per quote, guidati dal pregiudizio per cui il sordo non può rispondere al telefono e il cieco può fare solo quello. Oggi le innovazioni tecnologiche rendono i disabili sempre meno disabili. Mentre alle aziende conviene ancora più assumerli, complici i recentissimi incentivi fiscali, alcuni contenuti nel Jobs Act, altri provenienti da finanziamenti nazionali e regionali, che spesso gli stessi imprenditori ignorano».

La disabilità va gestita in chiave manageriale

L’idea che sta guidando il cambiamento, è quella di utilizzare una chiave manageriale per gestire la disabilità in azienda, e non assistenzialista: ragionare non per sottrazione guardando alla persona con disabilità, ma per cosa sa realmente fare. «Ecco che, se fino a poco tempo fa era la disability a dover essere affrontata nelle aziende, oggi ci si apre alla diversity in senso lato e il team di manager deve contenere più professionalità: non più solo avvocato o neurologo, ma anche ingegnere, fisioterapista, architetto, interprete dei segni, consulente del lavoro, economista».

In IBM, per esempio, opera un team Diversity che gestisce vari progetti sulla disabilità (mobilità, ambiente di lavoro, software, spazi condivisi). Tutti con l’obiettivo di creare un clima favorevole all’inclusione delle persone con fragilità, legate anche a malattie croniche o degenerative o periodi di cura (come la chemioterapia). Ne fa parte Consuelo Battistelli, non vedente. «La tecnologia c’è, le leggi anche, ciò che manca è il cambiamento culturale. Le aziende devono cercare le competenze al di là di chi le possiede». Consuelo organizza meeting internazionali, presiede ad eventi, scrive mail, lavora al computer.

Il valore aggiunto delle persone con autismo

Anche Dario Fici ha una disabilità e lavora: l’azienda che l’ha assunto (Everis Italia) si occupa di consulenza informatica e ha aderito al progetto di Specialisterne (http://it.specialisterne.com), organizzazione danese che offre sbocchi professionali alle persone con autismo (ha appena aperto la sede italiana e cerca aziende con cui collaborare). «Come molte persone con autismo, Dario ha un talento speciale nel trovare i difetti dei software» spiega Patrizia Manganaro, responsabile delle risorse umane in Everis Italia. «A noi servivano persone con queste caratteristiche e ne abbiamo assunte 10, tutte formate da Specialisterne, che le segue passo passo. Le loro difficoltà sono nelle relazioni: capire i contesti in cui si trovano, il momento e il tono giusto per parlare».

Ma l’azienda ha un’età media di 31 anni, quindi una naturale apertura alla diversità. «Sono stato accolto bene» racconta Dario «perché i colleghi hanno seguito dei corsi per conoscere l’autismo. Come tutte le persone come me, anch’io ho la tendenza a isolarmi, fatico a comunicare con gli altri. Avevo molta paura a entrare in un’azienda ma allo stesso tempo lo volevo fortemente, per diventare indipendente». Dopo una fase di affiancamento, in cui i colleghi hanno spiegato il metodo di lavoro a Dario, ora lavora in un open space e partecipa (non senza difficoltà) ai meeting. Una volta alla settimana, in azienda arriva Luciana De Angelis, la tutor di Spacialisterne che segue anche gli altri 9 ragazzi appena assunti. «Con Dario e gli altri lavoriamo sulla comunicazione con vere sessioni di coach: come scrivere una mail, come parlare in una riunione, capire il contesto. Prendiamo spunto dalle attività sociali che svolgiamo (pranzi e conversazioni) per migliorare i punti deboli: la tendenza a irrigidirsi, a chiudersi in se  stessi, a rispondere male». Secondo i più recenti studi ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) emerge che soltanto 1 persona con autismo su 10 ha oggi un impiego, ma si sta registrando un crescente interesse per la “neurodiversità” da parte di grandi compagnie americane come Microsoft e SAP che stanno scoprendo importanti valori aggiunti apportati dalle persone con autismo, come la particolare attenzione ai dettagli, una predisposizione a svolgere lavori che vanno ripetuti nel tempo e una grande capacità nell’analisi di azioni ripetitive.

La diversity sarà la sfida del futuro

La disabilità è solo una parte della diversity. «Il tema cruciale dei prossimi anni sarà la questione culturale (e quindi quella religiosa, che ne è parte)» conclude Valentina Dolciotti. «Ci vorrà, e ci vuole tutt’ora, sensibilità, buon senso e lungimiranza, e tanto senso pratico. Avere coscienza del fatto che già siamo una società multiculturale, che già i nostri figli studiano gomito a gomito con bimbi e ragazzi non necessariamente nati in Italia, è fondamentale. E confido che le aziende, come spesso è accaduto, sapranno raccogliere e far fiorire queste diversità ancor prima che il Legislatore faccia gli attesi passi verso l’affermazione di una qualità di civiltà che vada oltre l’attuale “tolleranza” o “sopportazione”. Poiché le aziende sono il tessuto sociale che molte volte ha spinto l’Italia verso innovazione e inclusione, anche culturale».

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