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C’è una strada per salvare l’economia

Causa coronavirus stiamo attraversando la crisi più grave dal Dopoguerra. Ma possiamo limitarne le conseguenze. Se ripartiamo velocemente, assicuriamo finanziamenti alle imprese e proteggiamo i posti di lavoro

«Ha presente un arco? In questo momento per sconfiggere il nemico dobbiamo usare ogni freccia a disposizione, scoccandole tutte insieme. E prendendo bene la mira». A parlare, con tono deciso ma rassicurante, è l’economista Francesco Daveri, docente di Scenari macroeconomici e direttore del Master in business administration della Sda Bocconi.

Il nemico a cui si riferisce non è in carne e ossa ma invisibile e strisciante: si chiama crisi. «Una crisi che, subito dopo quella sanitaria, è l’emergenza che ci troviamo ad affrontare. Si tratta di contenere – impedire è impossibile, come per il contagio – l’impatto economico del coronavirus. Non si parla di indici finanziari. Ma di posti di lavoro, di stipendi, di risparmi, della vita di tutti noi» dice il professore. E proprio a lui abbiamo chiesto di tracciare gli scenari possibili.

Un conto salato quello che le imprese italiane rischiano di pagare: tra i 270 e i 650 miliardi di fatturato secondo il nuovo Cerved industry forecast, il più importante report sulle prospettive dell’economia italiana. «Sicuramente si tratta del più grande shock che ha colpito il nostro sistema economico. Dati esatti non ne abbiamo ancora, al momento le stime dicono che nel secondo trimestre di quest’anno, da aprile a giugno, il Pil italiano potrà avere un calo a due cifre, intorno al –10%».

Un numero che spaventa. «È un dato drammatico. Però, se riusciamo a contenere la crisi in questi primi tre mesi, la ripresa nei prossimi trimestri potrà far scendere quel –10% a un –6%. E questo potrebbe succedere, come è accaduto nel 2003 in Iraq o dopo il terremoto di Haiti. È l’effetto “rimbalzo” del Pil: dopo eventi così drammatici e straordinari c’è una crescita esplosiva di produzione e consumi».

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Quindi secondo lei sarebbe fondamentale non superare le 12 settimane di lockdown? «Epidemiologi ed esperti di salute ci insegnano che per limitare i danni della crisi sanitaria è necessario circoscrivere il più possibile nel tempo il suo manifestarsi e smussarne l’intensità. Per limitare i danni della crisi economica le regole sono le stesse: ridurre il tempo del contagio, contenendo la dimensione del picco. Per me non dovremmo superare i tre mesi per l’emergenza sanitaria e quattro, al massimo, per quella economica».

E quali sono gli aiuti che potrebbero ridurre al minimo l’impatto di questa crisi? «In primo luogo bisogna evitare che le persone perdano il lavoro. Per questo non è sufficiente rinviare il pagamento delle tasse, serve una politica fiscale eccezionalmente espansiva. Bisogna cioè immettere liquidità nel sistema. In questo momento è come se il motore dell’economia mondiale avesse “grippato”. Per farlo ripartire serve un pieno di benzina».

La benzina in questo caso sono i soldi che la Bce, attraverso le Banche centrali degli Stati membri, dovrebbe dare alle banche? «Esatto. Gli istituti di credito devono avere i soldi da prestare a costo zero alle nostre imprese perché non chiudano, non licenzino e possano ripartire il più presto possibile».

Quale effetto avrà questa politica? «Il nostro debito pubblico crescerà e sarà come avere delle cambiali i cui interessi da pagare aumenteranno. Ma per venirci incontro la Bce ha già portato i tassi di interesse a zero e quindi per gli Stati come l’Italia prendere denaro in prestito ora è conveniente perché domani sarà meno caro rimborsarlo».

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Un altro aiuto arriva dai governi. Quello americano ha appena approvato un piano da 2.000 miliardi di dollari. La Germania ne ha varato uno da 350 miliardi euro. I soldi finora stanziati dall’Italia non le sembrano pochi? «I numeri americani sono straordinari. Però bisogna tenere presente che negli Usa non esiste uno Stato sociale come quello europeo e quindi, per far ripartire l’economia, hanno bisogno di più soldi e più velocemente. Dall’altro lato è anche vero che i nostri non sono molti».

Vuol dire che non possiamo vincere la guerra da soli? «In questo momento per l’Italia, come per altri Paesi tipo la Spagna e la Francia, è fondamentale contare sull’aiuto e sulla solidarietà dell’Europa. Perché, se tutti i governi si mettono in moto, ne beneficeremo anche noi. Poi, non parlerei di guerra: la guerra quando è finita è finita davvero, mentre la pandemia può avere una “coda”».

Cosa intende? «Una volta passata l’emergenza sanitaria bisognerà essere molto cauti nel ritornare alla vita normale. Il rischio di una ricaduta è alto. E allora sarebbe come spegnere il motore mentre la macchina è in movimento: un vero disastro».

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In che modo la crisi influirà sulle tasche dei cittadini? «Le imposte non aumenteranno e i mutui a tasso variabile scenderanno. Anzi, l’ideale ora sarebbe scegliere un prestito a tasso fisso, congelandolo».

E secondo lei quale sarà l’impatto di questa pandemia sulle nostre abitudini? «Le faccio un esempio. Non potremo tornare allo stadio, a teatro o a un concerto come facevamo prima: il numero di spettatori sarà inferiore e il costo presumibilmente superiore. Il rischio è quindi che si crei una “high cost society” e che la cultura e l’intrattenimento diventino appannaggio esclusivo di una classe ristretta, che può spendere. Per evitare che questo succeda, bisognerà inventare nuovi modi di fare eventi, trovare soluzioni per coprire i costi fissi, come quelli per location e artisti, senza fare impennare i prezzi».

L’intervista è finita. E dopo qualche ora ricevo un’email: «Nell’arco abbiamo tante frecce. Andrà tutto bene». Difficile pensarlo in questo momento. Ma bello sperarlo.

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Cosa sono i coronabond?

In questi giorni non si parla di altro. Per spiegare cosa sono, abbiamo chiesto al professor Francesco Daveri. «I Coronabond sono obbligazioni emesse e garantite dall’Europa per finanziare progetti in campo sanitario e di welfare legati all’attuale emergenza. In pratica, uno Stato membro chiede soldi in prestito per poter mettere in atto i propri interventi e il debito viene spartito tra tutti gli Stati membri. Una strada che i Paesi con i bilanci più virtuosi, Germania e Olanda in primis, sembrano non voler percorrere. Anche perché non si fidano che i soldi raccolti emettendo questi titoli vengano davvero usati solo per finanziare progetti legati all’emergenza».

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