Cosa succede se mi ammalo di Covid-19 al lavoro

Se ci si ammala di Covid-19 dopo che si è tornati al lavoro non dovrebbe scattare la malattia ma l'infortunio, una condizione più vantaggiosa. La difficoltà sta nel dimostrare che il contagio non è avvenuto altrove 

Con il coronavirus si continuerà a convivere a lungo e dunque anche con il rischio di ammalarsi. Nonostante le riaperture di ufficio e luoghi di lavoro, uno dei nodi ancora da sciogliere riguarda proprio le procedure (e le possibili conseguenze) in caso di contagio: le aziende premono perché non sia riconosciuta la responsabilità penale e civile del datore di lavoro in caso si contragga il COVID-19. Intanto resta il dubbio: cosa si deve fare se ci si ammala? Si rimane a casa in malattia o scatta l’infortunio? Serve il tampone per rientrare dopo la guarigione?

Dovrebbe essere riconosciuto l’infortunio

Se ci si contagia con il coronavirus in circostanze di lavoro si ha diritto al riconoscimento dell’infortunio e non la malattia. A chiarirlo è stata l’Inail con la circolare N.13 del 3 aprile, che ha escluso la malattia a vantaggio della tutela infortunistica. Rispetto a un mese e mezzo fa, però, adesso il numero di lavoratori rientrati in servizio è molto maggiore, dunque diventa molto difficile accertare se il contagio sia avvenuto nei luoghi di lavoro oppure in altre occasioni, magari a fine giornata lavorativa, incontrando amici e conoscenti, oppure prendendo i mezzi pubblici per gli spostamenti.

Bisogna provare il contagio al lavoro

«La differenza rispetto a qualche settimana fa è proprio questa: adesso diventa più difficile dimostrare che il contagio sia avvenuto sul luogo di lavoro e dunque per una carenza nel rispetto dei protocolli di sicurezza da parte di un’azienda» spiega Roberto Scipioni, funzionario di INCA Cgil. «L’automatismo si limitava una serie di categorie considerate a rischio, come i medici o le cassiere, che hanno contatti con il pubblico» dice Scipioni.

A fare chiarezza (e in attesa di una nuova circolare imminente) è stato il presidente dell’Inail, Franco Bettoni, che in una intervista recente ha dichiarato che per riconoscere l’infortunio in caso di malattia COVID-19 sarà necessario presentare una documentazione che provi l’occasione del contagio e le sue modalità. Dura la reazione dei sindacati: «Noi continuiamo a considerarlo un infortunio, per le possibili conseguenze a lungo termine» dice Scipioni.

La differenza tra malattia e infortunio

In caso di “semplice” malattia, il medico prescriverà un periodo di convalescenza al termine del quale si potrà rientrare al lavoro perché considerati guariti. Con l’infortunio, invece, se regolarmente denunciato e riconosciuto, si potranno valutare eventuali conseguenze sul lungo periodo che, nel caso del COVID-19, non sono da escludere. Si avrà, dunque, una maggior tutela in caso di problemi ai polmoni o ad altri organi» spiega l’esperto di INCA Cgil. «C’è poi anche un altro aspetto, che è molto dibattuto adesso e riguarda la possibilità di chiedere un risarcimento dei danni» avverte Scipioni.

Il tema spinoso del riconoscimenti dei danni  

È il tema più spinoso, che vede le aziende premere per uno “scudo penale” che escluda la responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da coronavirus. «Il problema riguarda la possibilità di denuncia in sede penale e soprattutto civile dell’impresa da parte del dipendente che si dovesse ammalare. In questo caso, infatti, potrebbe scattare la richiesta di risarcimento danni. Per questo si sta premendo perché un emendamento al Decreto liquidità o una nuova circolare Inail definisca questo aspetto» spiega Scipioni.

Come funziona la procedura di infortunio  

Ma cosa bisogna fare se ci si contagia dopo essere tornati al lavoro? «Occorre andare dal proprio medico di base, che valuterà se procedere con la richiesta di infortunio sul lavoro. In questo caso il lavoratore starà a casa fino alla guarigione, per poi sottoporsi a tampone prima del rientro al lavoro. Oltre ai due tamponi negativi che normalmente sono effettuati dalla Asl, potrebbe accadere che l’azienda ne chieda un terzo, a ulteriore garanzia che il lavoratore non sia più contagioso per i colleghi» spiega l’esperto della Cgil, che aggiunge: «Nel frattempo sarà scattata l’indennità da parte dell’Inail o dell’azienda stessa».

L’indennità di infortunio è più vantaggiosa

In caso di malattia il lavoratore potrà stare a casa senza variazioni nello stipendio. Con l’infortunio, invece, le indennità cambiano per età, tipo di lavoro e a seconda che sia l’Inail a corrisponderle oppure direttamente l’azienda: «A livello economico il trattamento di infortunio è più vantaggio se corrisposto direttamente dall’Inail. Ad esempio sono conteggiati anche i sabati e le domeniche. Ma i tempi di liquidazione sono in genere più lunghi, quindi spesso sono le aziende ad anticipare, in base all’articolo 70 T.U. 1124/65, per poi essere rimborsate dall’Inail. In questo caso l’indennità è solitamente identica alla normale retribuzione. Se il lavoratore prendeva, ad esempio, 1.000 euro continuerà a prendere la stessa cifra anche durante l’inabilità temporanea e nonostante l’Inail possa poi rimborsare l’azienda con una cifra leggermente superiore» spiega Scipioni.

Come si calcola il danno

«Ogni caso è a sé, ma esistono dei parametri e delle tabelle. Generalmente se l’inabilità temporanea è compresa tra il 6 e il 15% viene erogata una indennità una tantum, calcolata sulla base di tabelle che tengono conto dell’età e del danno subito. Oltre il 15%, in aggiunta al danno biologico si calcola anche una quota patrimoniale, cioè legata alla retribuzione di chi ha subito l’infortunio» conclude l’esperto.

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