Antonella Bellutti: la prima donna a correre per la presidenza del Coni

In sella alla sua bici ha vinto la medaglia d’oro in due Olimpiadi consecutive. Poi è passata al bob, e ha partecipato alla terza. Oggi ha un nuovo obiettivo: battersi per uno sport senza discriminazioni

La prima volta che molti di noi l’hanno vista, sventolava il tricolore nel velodromo di Atlanta nel 1996. Ve la ricordate? Tra curiosità e sorpresa, seguivamo con gli occhi questa scultura futurista in tutina azzurra, il casco a punta da cartone animato, accucciata sul manubrio con le braccia così ferme e perfette che sembravano un tutt’uno con la bici.

Candidarsi è un altro record

In quella posizione Antonella Bellutti fece conoscere il ciclismo su pista a tutti noi, che quel giorno scoprimmo cosa voleva dire “pistard”. Erano le Olimpiadi e lei vinse il primo oro olimpico italiano femminile nell’inseguimento su pista, ma era già una campionessa. Dopo quelle Olimpiadi vinse ancora. Tanti i suoi record da atleta, ricordarli vorrebbe dire inciampare in uno scioglilingua. Ma l’ultimo, comunque vada, è già un record perché è la prima donna ad essersi candidata alle elezioni per la presidenza del Coni, in programma il 13 maggio. Una roccaforte maschile inespugnabile, come il clero. 

La vita agonistica ti brucia in fretta

Mentre riavvolgiamo il nastro di una vita piena di podi, lei arriva all’appuntamento in videochiamata con i capelli strizzati in una coda. E viene subito da chiederle perché abbia deciso di passare dallo sport, in cui i risultati dipendono da te atleta, a un impegno “politico”, dove i meccanismi complicati rischiano di stritolarti. «Dopo aver lasciato l’agonismo sono stata coinvolta in più ruoli, ma poi li ho abbandonati perché mi sono sempre sentita un pezzo di un ingranaggio che si muoveva in direzione opposta al sistema, e questo mi ha mandato in surriscaldamento. La vita post agonistica in Italia è difficile proprio per come si sviluppa quella agonistica, che ti consuma in fretta senza poi darti altre possibilità. Il mondo sportivo non coinvolge l’atleta, tanto più se sei donna, e questo accade per retaggi culturali che risalgono ai tempi della rivoluzione industriale, quando è nato lo sport moderno. Da allora i valori sono quelli della società capitalistica e del patriarcato, per cui all’uomo che fa sport si chiede mascolinità, dalla donna si pretendono grazia e gentilezza. Lo stesso De Coubertin, il padre delle Olimpiadi moderne, si disse contrario allo sport come attività per le donne».

Il Coni: ambiente maschile e maschilista

È solo con i Giochi di Londra del 2012 che si conclude il lungo inseguimento femminile. «Fino a 9 anni fa non potevamo competere in tutte le discipline olimpiche. La maratona, per esempio, fu aperta alle atlete solo nel 1984. Ma anche negli organismi dirigenziali regna lo stesso stereotipo. In 107 anni di storia, il Coni ha avuto 20 presidenti e 732 presidenti di federazioni, tutti uomini. Non solo il vertice dirigenziale è monogenere, ma molti di questi uomini sono sempre gli stessi: abbiamo avuto presidenti al sesto mandato o addirittura candidature uniche». Per tentare di invertire la rotta, sono state introdotte anche nel mondo sportivo le quote rosa. «Nel 2018 si è stabilito che il 30% dei componenti dei consigli federali fosse femminile, però nei quadri dirigenziali le donne sono assenti, anche nelle discipline dove rappresentano la maggior parte dei tesserati». Qualcosa però sta cambiando: alla guida della Federazione Squash è stata appena eletta una donna, Antonella Granata. «I vertici delle federazioni si stanno man mano rinnovando, bisogna vedere quanto le elezioni del Coni riescano a intercettare questo cambiamento. Comunque, che io vinca o meno, ciò che conta oggi è evidenziare quello che non si è voluto affrontare finora e proporre delle soluzioni».

Una vita tra le discriminazioni

Fra i temi che non sono stati affrontati finora, la parità di genere e l’inclusività sono quelli che più stanno a cuore ad Antonella. Dal 2000 è testimonial di Assist, l’Associazione Nazionale Atlete, al fianco della quale combatte per i diritti delle donne nello sport. Ed è anche un’attivista Lgbtq+ da quando, una tra le pochissime atlete di alto livello, ha fatto coming out. «Ma poi, quando si può dire che fai coming out? Quando lo dici alla famiglia, agli amici, all’allenatore, ai giornalisti? Io ho cercato di prestare sempre il mio nome alle cause contro le discriminazioni. Lo so, parlare di tabù nello sport sembra un ossimoro: in gara vince chi è più bravo, e tutto il resto non dovrebbe contare. Invece non è così, perché le tue scelte personali pesano. Eppure lo stigma non mi fa paura, io mi definisco una portatrice sana e serena di discriminazione» sorride. «Ho dovuto farci i conti fin da piccola: essendo altoatesina ma madrelingua italiana, ho dovuto sempre dichiarare a che gruppo linguistico appartenevo. Poi ho iniziato a praticare discipline percepite come maschili, atletica e ciclismo, e su questo si è innestato anche il preconcetto dell’atleta dotata come un uomo. Dopo, è arrivato quello sulla vita sentimentale ma è stata peggiore la critica per la scelta di diventare vegana: sono rimasta sbalordita da quanto sia stata oggetto di disapprovazione. Sono stata attaccata più per cosa avevo deciso di mangiare che per l’omosessualità. Allora ho capito che nella vita cambi solo compagni di discriminazione. E a seconda delle scelte, apri o chiudi delle porte che fanno entrare le persone. Negli anni mi sono rasserenata e ora so che abbiamo due soluzioni: o sei vittima e fai le scelte che gli altri vogliono che tu faccia, o prendi in mano la tua vita e fai quello in cui credi».

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Difficile parlare del proprio orientamento sessuale

In Italia è ancora difficile parlare del proprio orientamento sessuale liberamente, e lo sport non è da meno. «Le discriminazioni sono tante, è complicato isolare le cause dagli effetti. L’unica gerarchia del mondo sportivo dorrebbe esser quella basata sul merito, invece ci sono molti dualismi. Al primo posto la divisione tra uomini e donne. Poi il discrimine tra professionisti e dilettanti: solo in 4 delle 44 Federazioni, e solo nella massima categoria maschile, esiste il professionismo. Quindi le donne, per vivere di sport, devono arruolarsi in un corpo militare, altrimenti stanno nella precarietà dove tutto si basa su accordi verbali e scritture private. Altra divisione ancora è quella tra sport olimpici e paralimpici. Ecco quindi che dall’appartenenza a una o all’altra categoria si decide il percorso verso le pari opportunità».

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La sua carriera nello sport, tra podi e cariche

Antonella Bellutti ha iniziato la carriera agonistica con l’atletica, ottenendo un primato juniores sui 100 ostacoli. Dopo un infortunio è passata al ciclismo su pista ed è stata la prima donna a vincere l’oro in 2 Olimpiadi consecutive: Atlanta 1996 e Sydney 2000. Non solo. È l’unica atleta italiana ad aver partecipato sia ai Giochi olimpici estivi sia a quelli invernali: nel 2002, a Salt Lake, è arrivata settima nel bob a due. Ha fatto parte della Giunta nazionale del Coni e della Commissione ministeriale per le Pari opportunità nello sport. È stata rappresentante degli atleti nella commissione Ministeriale Anti Doping e responsabile del progetto uni sport dell’Università di Trento. È stata responsabile dei volontari per il comitato organizzatore dell’Universiade invernale del 2013.

Ha scritto il libro La vita è come andare in bicicletta (Sonda, 2017).

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