Foto di Roberta Valerio
Foto di Roberta Valerio

Le badanti dell’Est: così preziose, così sconosciute

Da 30 anni si prendono cura dei nostri anziani. Eppure le donne venute dai Paesi dell’ex Urss sono spesso considerate solo “rubamariti” e “ignoranti”. Una sociologa le racconta in un saggio, per smontare i pregiudizi

Rubamariti, ignoranti, arretrate. Luoghi comuni ancora diffusi nei confronti delle badanti provenienti dai Paesi dell’ex Urss: «Una migrazione al femminile iniziata nell’agosto del 1991 con la fine dell’Unione Sovietica e formata soprattutto da ucraine, poi moldave e georgiane» spiega la sociologa Martina Cvajner, ricercatrice al dipartimento di Psicologia e scienze cognitive dell’università di Trento. «Originaria di Pola, punta dell’Istria croata, a causa della guerra sono arrivata in Italia nel ’94 con un visto da rifugiata. Per mantenermi ho cominciato a lavorare come badante e, parlando il russo, ho fatto amicizia con altre colleghe». Ne scrive in Soviet signoras, edito dall’università di Chicago, e in Sociologia delle migrazioni femminili. L’esperienza delle donne post-sovietiche (il Mulino).

Il flusso di migranti dagli Stati dell’ex Unione sovietica verso il nostro Paese è quadruplicato in 15 anni

«Nel 2002 rappresentavano il 3% dei permessi di soggiorno rilasciati a uno straniero non comunitario, nel 2017 erano saliti al 12%. Di questi, 3 su 4 sono donne» riferisce la sociologa. «Si tratta perlopiù di persone divorziate, con figli, sui 30-40 anni. Ritenute “nonnine” dai connazionali, qui scoprono di essere ancora giovani e desiderabili, rimodellando l’identità personale in modi spesso vistosi. Attraggono soprattutto uomini avanti negli anni, separati o vedovi, che assicurano una stabilità affettiva ed economica: queste coppie miste costituiscono esempi positivi per sfatare i pregiudizi. Certo, non mancano le eccezioni negative che balzano nelle cronache, dove i sentimenti non c’entrano ma vale solo il tornaconto, e rafforzano i luoghi comuni» chiarisce Martina Cvajner. Non così per Tatiana, da badante a moglie di Mario: «Lui, maggiore di 30 anni e vedovo, è stato osteggiato dai figli, che non hanno creduto all’amore fra loro. Si sono sposati in segreto, dopo 15 anni lui è morto e lei ha rifiutato l’eredità, accettando solo la bassa pensione di reversibilità e continuando a fare il suo lavoro in un’altra città».

Altri stereotipi sono la scarsa cultura e l’arretratezza sociale

«Quasi tutte le badanti ucraine, moldave e georgiane sono laureate, conoscono 3 lingue e hanno una carriera professionale alle spalle. In patria erano insegnanti, dirigenti, ingegneri, medici, quindi abituate a una vita sociale attiva, mentre qui si sentono recluse in casa. La diffidenza iniziale si dirada anche grazie alla nascita sui territori di associazioni che promuovono tradizioni e cultura dei Paesi di origine» puntualizza la sociologa. Lo testimonia Svetlana, moldava 57enne, arrivata 16 anni fa in Italia lasciandosi alle spalle un lavoro da responsabile di un grande negozio prima e in banca poi, un ex marito malato, 3 figli e una madre anziana. «Ho organizzato molti incontri con i connazionali, per far conoscere agli italiani le nostre usanze, lo stile di vita delle nostre comunità. E devo dire grazie a tante famiglie che con il passaparola diffondono referenze positive nei nostri confronti; alcune signore che ho assistito sono state come mamme. Certo, arriviamo sapendo poche parole d’italiano e la barriera linguistica è un ostacolo per la conoscenza reciproca, anche se nel giro di 2 mesi impariamo». Sul fronte dei diritti, però, «siamo ancora poco tutelate dallo Stato se ci ammaliamo: ci spettano solo 15 giorni di congedo per malattia, poi non siamo retribuite».

«Abbiamo problemi anche per ottenere la pensione e la cittadinanza»

sottolinea Viktoria, 68 anni, che ha lasciato nel ’99 un figlio 25enne in Ucraina, dov’era dirigente scolastica con una laurea in Psicologia e pedagogia prescolare. «Gli studi mi hanno aiutato, anche in Italia, a comprendere le dinamiche familiari e con molti ex datori di lavoro resta un rapporto di amicizia. Purtroppo i nostri titoli universitari non sono riconosciuti qui e spesso gli orari richiesti dal nostro mestiere non consentono di frequentare corsi». Veronica, moldava 48enne, nel nostro Paese dal 2003 con un figlio che allora aveva 10 anni, è una delle poche a esserci riuscita: «Facevo l’insegnante e poi la manager nell’amministrazione scolastica. Qui, dopo l’esperienza di badante e cameriera in hotel, mi sono formata e ho iniziato a lavorare in uno sportello d’informazione per migranti. Da un anno e mezzo mi occupo di assicurazioni sanitarie e fondi pensione». Ma è un’eccezione: «Persone come lei di solito restano intrappolate nel mondo del badantato. Alcune diventano colf o bariste, altre entrano in ospedale come operatrici sociosanitarie. Il mercato del lavoro in Italia è poco vivace, rigido, soprattutto per le donne» osserva la sociologa. «Se poi sei straniera, di mezza età, è ancora più difficile evolvere dal punto di vista professionale».

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