Adriana Signorelli, la vittima, con il marito

Adriana Signorelli, la vittima, con il marito

Femminicidio: non può essere colpa delle donne

Uccisa dall’ex compagno violento. La procura accusa lei: “Doveva andare via di casa”

Una donna milanese è stata ammazzata dal marito (almeno così si ipotizza). Pochi giorni prima lei lo aveva denunciato per l’ennesima aggressione e aveva detto alla polizia che si sarebbe trasferita dalla figlia, qualche chilometro più in là. Non lo ha fatto. “Se avesse rispettato questo impegno, sarebbe andata diversamente. Non ottemperare le è stato fatale”. A dirlo non è un commentatore qualsiasi, ma una dirigente della procura di Milano.

Colpa sua, insomma. Lei, la vittima, se l’è cercata. Non si è difesa da sola. Possibile? Sotto i riflettori accesi dai magistrati finisce anche il Codice rosso, commentato dal capo dei pm in modo tutt’altro che entusiasta e dopo tre settimane e mezzo di rodaggio.

Un crescendo di violenze e aggressioni

Adriana Signorelli aveva 59 anni e il terrore dell’ex marito, Aurelio Galluccio, un omone di 65 anni manesco e geloso, incapace di accettare la separazione, lasciato nelle condizioni di muoversi senza problemi nonostante i trascorsi e la pericolosità. Nella notte tra lunedì di 26 agosto e martedì 27 agosto lui ha fatto irruzione a casa di lei, alla periferia di Milano, e l’ha aggredita, di nuovo, come era già era successo altre volte. La donna ha chiamato la polizia e lo ha denunciato, innescando il “codice rosso”, la procedura dedicata prevista dal 9 agosto nei casi di reati contro vittime in prevalenza di genere femminile e minori. L’uomo è rimasto in libertà, con l’unico obbligo di andare in commissariato a firmare il registro delle presenze, la misura cautelare adottata a gennaio da un gip, dopo un altro raid e una condanna in primo grado (appellata e quindi non definitiva) a un anno e quattro mesi di carcere. Il pm di turno, Sergio Spadaro, è stato informato dell’accaduto e dei precedenti, agguati, minacce, vendette, maltrattamenti. Non ha ritenuto di disporre il fermo, da quello che si è saputo. Ma non è scontato che ci fossero gli appigli per farlo.

“Se si fosse trasferita, si sarebbe salvata”

Adriana ha detto agli agenti che sarebbe andata a stare per qualche giorno dalla figlia, un proposito messo a verbale, e il genero le ha cambiato la serratura della porta di casa. La polizia nei tempi stretti imposti dal Codice rosso ha trasmesso un’informativa scritta alla procura, la mattina di sabato 31 agosto. Alle 23.30 la figlia ha chiamato la polizia, perché era preoccupata. All’1.15 ha dovuto richiamare. Ha trovato la mamma senza vita, trafitta da profonde coltellate. Il presunto assassino, l’ex marito è tornato in zona e ha cercato di sottrarsi alla cattura. Infinè stato arrestato e accusato del delitto. Per 24 ore polizia e procura hanno taciuto il “particolare” dell’ultima, recentissima denuncia della vittima. Poi il procuratore aggiunto Letizia Mannella ha dichiarato: “Non ottemperare a questa promessa (il proposito di Adriana di cambiare casa) purtroppo le è stato fatale”.

Colpa sua e del Codice rosso: possibile?

Il procuratore capo, Francesco Greco, ha assolto d’ufficio collaboratori e investigatori (“quel che si poteva fare è stato fatto”, ha detto) e ha spostato l’attenzione sulle difficoltà logistiche e investigative che il Codice rosso starebbe provocando: aumentano le denunce da gestire, salite ad agosto a 30 al giorno (cosa che non dovrebbe essere negativa, ma positiva); i casi meno gravi rischiano di oscurare i casi più gravi; il tutto va ad ingolfare la farraginosa macchina della giustizia, già alle prese con problemi di organico e di risorse.

Una donna viene ammazzata e la colpa è sua? Oppure le responsabilità vanno cercate negli effetti collaterali del Codice rosso? Nelle fiction e nelle serie tv a lieto fine – e dovrebbe succedere così anche nelle realtà – le donne in pericolo vengono aiutate, sostenute, monitorate. Le persone più a rischio spesso sono portate in case protette o alberghi sicuri, le pattuglie organizzano frequenti giri di controllo, si informano i familiari, c’è sempre un detective che lascia il suo numero di cellulare. Scattano divieti di avvicinamento e altre prescrizioni. Si cerca di impedire che un reato sia portato ad ulteriori conseguenze.

Adriana è stata lasciata sola

Non sempre i “cattivi” possono essere messi in galera prima di una condanna definitiva. Restano liberi. La legge lo prevede (ove ricorrano le condizioni) e i giudici hanno spazi di valutazione e manovra (caso per caso, anche in dissenso con i pm o con i difensori). Inoltre, creato proprio a Milano ed esportato nel resto d’Italia, c’è pure il “protocollo Eva”. Si tratta dell’applicazione di adempimenti standardizzati messi a punto dalla polizia per garantire risposte e interventi efficaci. Adriana, una donna in difficoltà, vulnerabile e spaventata, invece è stata affidata a se stessa e ai suoi propositi.

Non solo. Agli agenti andava bene che traslocasse a casa della figlia, e non in un luogo diverso, anche se l’ex compagno conosceva l’indirizzo e aveva già violato il “rifugio” familiare. Tutti hanno fatto la loro parte? Forse, riesaminando pezzo per pezzo la storia e l’epilogo tragico, verrebbe fuori che ciascuno ha fatto la sua parte e per intero. O forse emergerebbero smagliature, criticità operative, difficoltà di coordinamento o, peggio, errori. Per ora, almeno in pubblico, non c’è la minima autocritica da parte di chi ha operato in questura (e nei due commissariati coinvolti), in procura (con più pm che si si sono occupati dell’uomo violento e con almeno un intervento diretto dei superiori, per un episodio precedente) e in tribunale (dove al momento nessuno si è esposto).

“Colpisce l’incoerenza di certe dichiarazioni”

Anna Ronfani, avvocata torinese da sempre schierata al fianco delle donne, vicepresidente di Telefono Rosa Piemonte, commenta: “Questo tragico caso è emblematico. Mette in luce le carenze da cui è gravato il cosiddetto Codice rosso, norma teorica di apparente efficacia che nell’applicazione pratica sconta un grave difetto: la mancanza di risorse, di strategie e di mirate competenze, necessarie per una corretta e utile applicazione. È come dire che la corsia preferenziale, aperta per tutelare meglio le vittime, rischia di essere inutilmente percorsa a piedi da un marciatore in difetto di ossigeno o con una gamba fratturata. La violenza contro le donne –incalza – non è una transitoria emergenza sociale e giudiziaria: è da molto tempo un fenomeno strutturale nel contesto in cui viviamo. Colpisce anche l’incoerenza: da anni si esortano le donne abusate e maltrattate a rompere il silenzio e a denunciare, dall’altra adesso si dice che le denunce sono troppe per le risorse esistenti. Se questo avviene in una grande procura nazionale – continua – è lecito temere che la situazione possa essere più grave negli uffici giudiziari di minori dimensioni”. “

Sbagliato chiedere alle vittime di proteggersi da sole

Che fare, allora? Come dovrebbero riorganizzarsi procure e investigatori? Risponde sempre l’avvocata della donne: “Andrebbe fatta una precisa e realistica mappatura della forza degli operatori in campo, da misurare in termini numerici e di formazione e competenza, e sarebbe necessario verificare l’esistenza di precise strategie condivise. Se il bilancio apparirà negativo, occorrerà chiedere e ottenere adeguati rinforzi ,sotto ogni aspetto. Il Codice rosso non è un punto di arrivo, ma solo un teorico punto di partenza. E non funziona a costo zero”.

Si può dire una donna che si deve autodifendere, coinvolgendo ed esponendo a rischi un’altra persona della famiglia, cioè la figlia? “La violenza di genere – osserva Anna Ronfani – è un problema pubblico, non privato: per questo suona irritante la implicita e strisciante colpevolizzazione della persona offesa, che ‘invitata ad andare ad abitare dalla figlia’, non ci era andata. Come se il problema dovesse essere affrontato con mere strategie autoprotettive, per lo più di fuga. È come sostenere che le donne devono essere abili a difendersi da sole, anche a costo di stravolgere la propria esistenza, anziché affermare che gli uomini vanno messi in condizione di non poter offendere. Questo è francamente inaccettabile. E poi – chiede, rilanciando – chi può sapere se l’assassino non avrebbe colpito ugualmente l’ex moglie, in un luogo e circostanze diverse?”.

La donna andava protetta, non esiliata

“Certe affermazioni sono fuori misura” Fabrizio Cassinelli è un giornalista di lungo corso, da anni segue la cronaca nera milanese e sta nel direttivo del Gruppo cronisti lombardi. “Trovo gravissimo, da parte di chi deve prima di tutto garantire la sicurezza dei cittadini, sottolineare che una donna non aveva mantenuto la promessa di andarsene di casa. Ricorda tanto le giustificazioni sull’abbigliamento succinto delle persone violentate. ‘Eh , però, vestita così…’. La donna doveva essere protetta, non esiliata. Ad andarsene avrebbe dovuto essere costretto lui, l’ex marito pericoloso, e tenuto lontano. Penso ai parenti della vittima e alla loro amarezza”.

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