Bambino sul balcone

Fase 2: perché i bambini restano al chiuso

Dai genitori alle maestre, si moltiplicano appelli e proteste per l’isolamento dei più piccoli. L'esperto spiega perché saranno gli ultimi a uscire

«Quando tornerò al lavoro, dove lascerò mio figlio?». «Perché i più piccoli, quelli che hanno forse più bisogno di muoversi, sono invece i più isolati e ingabbiati?» Sono solo alcune delle domande che si moltiplicano mentre ci si avvicina alla fase 2, con la possibilità di tornare al lavoro o a spostarsi, ma non per tutti. Gli unici a rimanere ancora a casa rischiano di essere i bambini. Finora la sola concessione è stata di poter fare brevi passeggiate (in prossimità dell’abitazione) uno alla volta e con un solo genitore. Ma perché i più piccoli sono anche i più penalizzati? «Per un motivo sanitario: a differenze di altre malattie, il bambino non è fragile nei confronti del coronavirus, si ammala meno e con sintomi più lievi, ma è un maggiore potenziale diffusore di infezioni e non si autocontrolla: non tiene una mascherina, se gioca non rispetta il distanziamento sociale e non si lava le mani come può fare un adulto» spiega Alfredo Guarino, ordinario di Pediatria all’Università Federico II di Napoli e responsabile del Centro pediatrico per il COVID-19 della Regione Campania.

Ma è davvero “colpa” dei bambini?

«I bambini sono tra le categorie dei soggetti che possono veicolare il virus pur senza sintomi o con sintomi lievi, dunque esattamente come gli adulti asintomatici. Non si devono quindi considerare “untori”. La differenza sta nel fatto che con i più piccoli e i giovani è molto più difficile seguire le norme per contenere il contagio: lavaggio delle mani frequente e accurato, distanziamento sociale e uso di dispositivi di protezione come le mascherine» spiega Rocco Russo, pediatra responsabile del tavolo sulle vaccinazioni della Società Italiana di Pediatria.  

«Il problema del ritorno a scuola, dunque, non riguarda il rischio di poter contagiare maestre o bidelle dopo due mesi di isolamento, quanto piuttosto la difficoltà di gestire il distanziamento personale. È chiaro che i bambini non producono il virus da sé, ma lo possono prendere (dai genitori che nel frattempo saranno tornati al lavoro o che possono uscire). Una volta a scuola o al parco a giocare con gli amici a loro volta lo potranno trasmettere ai coetanei, che a catena lo porteranno a casa da genitori e nonni. Da qui il pericolo di nuovi focolai». Il rischio, dunque, proviene soprattutto e proprio dai genitori, che sono quelli che possono uscire di casa e che a breve torneranno al lavoro.

La difficoltà del distanziamento (anche all’aperto)

«Dobbiamo partire dal presupposto che al momento l’unica arma per combattere il coronavirus sono le norme di comportamento e in particolare il distanziamento. A scuola spesso non ci sono le condizioni per garantirlo, a causa degli spazi ridotti. All’asilo nido sarebbe impossibile per l’età dei bambini. Già alle superiori si potrebbe pensare a un ritorno dopo aver debitamente formato i ragazzi sulle precauzioni da seguire» spiega Russo. Ma se i luoghi chiusi sono troppo pericolosi, perché non permettere di andare in parchi e giardini all’aperto? «Oggi siamo ancora troppo vicini al picco dell’infezione, tra un mese le condizioni saranno differenti. Per le riaperture occorrono maggiori condizioni di sicurezza perché, se è vero che nei parchi ci sono meno rischi, il pericolo è che nel giro di pochi giorni si torni agli assembramenti con la conseguenza che i bambini porterebbero a casa il virus a genitori e nonni. Oggi deve prevalere la prudenza» spiega Guarino.

«Uscire per andare al parco non avrebbe rappresentato un problema neppure qualche settimana fa, ma immaginiamo di portare un figlio al parco: prima di uscire dovremmo spiegargli che non può avvicinarsi agli altri, né giocare con loro, che non deve toccare gli oggetti e dovremmo vigilare perché non si metta le mani in bocca, sul naso e vicino agli occhi. È molto complicato e rischieremmo di stressare lui e noi stessi ancora di più» aggiunge Russo.

Come proteggere i nonni (e i bambini)

«Purtroppo al momento non ci sono altre strade, come vaccino o terapie, quindi l’unica forma di contenimento è il distanziamento, che però va seguito anche e soprattutto dagli adulti che escono di casa» spiega l’esperto della Società Italiana di Pediatria. Come proteggere i nonni, dunque, che sono i più fragili? «Paradossalmente se lasciassimo i bambini con i nonni a casa, non si correrebbero pericoli. Sono gli altri adulti, quelli che escono per tornare al lavoro o per altre esigenze, che devono prestare attenzione quando tornano. Tutto questo alla luce del fatto che sappiamo ancora troppo poco di questo virus e che probabilmente, stando ai dati, ha iniziato a circolare molto prima di quanto non si credesse fino a poco fa» dice Russo.

Vecchi e nuovi focolai

«La ripresa delle attività è già pericolosa se si limita agli adulti, figuriamoci se riguardasse anche i bambini. Significherebbe produrre focolai epidemici. Abbiamo già avuto 25mila vittime finora, ne avremmo di nuove» avverte Guarino. «Al momento non c’è una strategia a rischio zero. Uno studio americano ha analizzato l’andamento durante l’influenza spagnola ed è emerso che il secondo picco ha dato un numero maggiore di vittime. Per questo se i bambini tornassero a scuola oggi, potremmo ritrovarci nuovamente in emergenza» spiega Rocco Russo.

Manca un sistema di welfare

Mentre le scuole riaprono (o stanno per farlo) in alcuni paesi europei, in Italia è ancora poco chiaro come e se si riprenderà l’attività a settembre (didattica a distanza o in presenza? Ingressi scaglionati o a turni?). Intanto una cosa è certa: in classe non si tornerà entro giugno, mentre i genitori riprenderanno a lavorare. Con chi staranno allora i figli? A prendere posizione è stata Melina Zerbo, maestra di una primaria a Genova, che ha scritto una lettera aperta nella quale incalza: «Il 96% dei miei alunni vive in una casa senza giardino. Il 5% non ha nemmeno un terrazzo. Il 3% spartisce l’appartamento con più di 5 persone, in qualche caso estranee al nucleo famigliare più stretto. Davvero volete farmi credere che nei prossimi mesi nessuno di coloro che sono costretti all’isolamento sociale svilupperà un disturbo post traumatico da stress?».

Bambini a «rischio stress»

«È vero che ci possono essere conseguenze di tipo psicologico anche sui più piccoli, come lo stress post traumatico, tanto che ci sono diversi studi anche pediatrici. Non vanno neppure dimenticati i bambini con disabilità o che soffrono di autismo: purtroppo molti percorsi di riabilitazione sono saltati per mancanza di personale dedicato o per i rischi troppo elevati per gli operatori stessi, tra i quali ci sono già state vittime. Ma al momento non ci sono alternative» spiega il professor Guarino. Ma per quanto le famiglie potranno andare avanti così?

Quanto reggeranno le famiglie?

«Finora le famiglie si sono fidate ciecamente attenendosi alle indicazioni, ma cosa succederà nella fase 2? Non possiamo permetterci di farle crollare e gli interrogativi sono molti: dall’organizzazione familiare alle difficoltà economiche. I genitori devono tornare a lavorare, specie nelle famiglie numerose, ma come possono farlo se scuole e centri estivi restano chiusi?» chiede Gigi De Palo, presidente del Forum Nazionale delle Associazioni Familiari. «Le task force sono composte da grandi esperti e professori universitari, ma forse occorrerebbe coinvolgere le madri, che conoscono meglio come funziona la quotidianità. Sono loro che finora hanno lavorato il doppio: mia moglie, come molte altre, ha gestito la casa, ha fatto da maestra, ma ha anche seguito la rieducazione di nostro figlio con sindrome di Down via Skype, si è preoccupata che i fratelli si potessero connettere per seguire la scuola a distanza, ha lavorato in smart working e seguito i genitori anziani, con uno sforzo immane. Ma non si può andare avanti a lungo in questo modo» dice De Palo. Da qui l’esigenza di soluzioni immediate.

Quali soluzioni possibili: centri estivi condominiali e nuovi voucher

«Nell’immediato occorre pensare a soluzioni concrete. Noi abbiamo proposto centri estivi condominiali, con gruppi di 10/12 bambini seguiti da educatori selezionati da un albo e pagati dai Comuni per i singoli condomìni. Occorre coinvolgere anche i centri sportivi, gli oratori e i campus estivi, pensando a un minor numero di utenti. Se non è percorribile la strada della riapertura delle scuole a breve, è urgente sperimentare nuove soluzioni – e trovare risorse – in vista del nuovo anno scolastico: si dovrebbe pensare a un prolungamento dei voucher baby sitter o dei congedi parentali, strumenti insomma che permettano ai genitori di poter riprendere le attività e ai figli di tornare a un po’ di normalità» spiega De Palo.

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