Rientro a scuola: cosa dicono gli insegnanti

È vero che molti docenti stanno chiedendo l'esonero? Di sicuro i loro dubbi sono molti: dai test sierologici alle supplenze, dal distanziamento alla didattica a distanza

Il countdown è ormai iniziato: molte scuole hanno già inviato le prime comunicazioni ufficiali alle famiglie, quelle di routine, come il pagamento delle assicurazioni e la gestione del registro online. In molti casi però mancano ancora le indicazioni pratiche sulla gestione della pandemia, come le soluzioni da adottare per organizzare la mensa o gli ingressi scaglionati. Ma se i genitori sono preoccupati per il rischio di chiusure legate ai primi casi di Covid, ad agitare i docenti sono soprattutto le tutele (o mancate tutele) nei loro confronti: dalla condizione dei lavoratori “fragili” che chiedono l’esonero alla mancanza di un numero adeguato di supplenti che possa sostituirli rapidamente in caso di malattia, senza dimenticare i dubbi su test sierologici, tamponi, rispetto delle norme di distanziamento e igienizzazione delle aule.

Non ci sono indicazioni sull’esonero

Secondo il Corriere della Sera, in alcune regioni sarebbero già arrivate le prime domande con richiesta di esonero da parte di insegnanti che rientrano nella categoria dei “lavoratori fragili”, ossia con patologie pregresse e contemporanee (come malati oncologici o immunodepressi) o di età superiore ai 55 anni. Solo in Veneto sarebbero «centinaia le lettere ai presidi», secondo la direttrice dell’ufficio scolastico regionale, Carmela Palumbo. Non andrebbe meglio in Liguria e Campania. Per questi insegnanti un eventuale contagio da coronavirus potrebbe essere molto rischioso, da qui la richiesta di non rientrare in aula. A Salerno le domande sarebbero già una trentina, ma potenzialmente il personale che potrebbe chiedere un esonero per motivi di salute è molto maggiore. «Sappiamo che esistono alcuni casi di docenti che hanno segnalato le loro preoccupazioni, soprattutto in regioni dove si sono registrati più contagi, come in Veneto, ma non si può parlare di vero allarme, ad oggi non c’è alcun numero che ci possa dare un’indicazione realistica della situazione» spiega Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi. «La verità è che si sta navigando a vista» spiega Cinzia Ruggeri, portavoce Cobas della provincia di Ancona. «Non credo siano già arrivate domande di esonero, per il semplice motivo che non sono ancora state fornite indicazioni su chi possa averne diritto nel caso di rischio Covid, su come potrebbe essere sostituito o se possa svolgere attività didattica da casa o in uffici distaccati, né su quale sia il trattamento economico previsto». Insegnanti in prima linea come gli infermieri? Per tutti, parla dice Teresa Ambrosi, insegnante di liceo a Perugia e responsabile Area Strategica 2° ciclo dell’Associazione Docenti italiani: «Personalmente ritengo che sia nostro compito tornare a scuola anche se è indubbio che siamo in assenza di tutele. Come insegnanti siamo molto esposti, sappiamo che i ragazzi sono spesso portatori asintomatici, ma siamo anche pubblici ufficiali: una volta si giurava sulla Costituzione, penso che sia nostro dovere impegnarci perché la scuola riprenda e lo faccia con una didattica vera, anche se – come credo sarà inevitabile – dovremo fare i conti con le chiusure in caso di positività e nuovi focolai».

Test sierologici: chi accetta e chi no

A quindici giorni dal via delle lezioni, molti docenti sono stati già chiamati a sottoporsi volontariamente e gratuitamente a test sierologici, insieme al personale ATA che dovrà occuparsi di ingressi e uscite, oltreché della pulizia di aule e locali scolastici. In tutto 2 milioni di lavoratori che avranno tempo fino al 7 settembre per aderire alla campagna di screening che ha già portato a individuare alcuni positivi: circa 160 tra Alto Adige (la regione col maggior numero), Veneto, Lombardia, Umbria e Trentino. Eppure 1 docente su 3 ha detto “no” alle analisi che servono a capire se si è entrati in contatto con il virus sviluppando anticorpi. Tra i motivi ci sarebbe il fatto che, in caso di positività, si deve rimanere in isolamento fiduciario in attesa di tampone. Il che significa non tornare al lavoro. In alcuni territori, invece, si sono registrati ritardi e confusione su chi fosse responsabile della somministrazione dei test (medici Inail, di base o Asl, a seconda delle regioni). «Qualcuno ha anche fatto appello a convinzioni personali, ritenendoli inutili, ma io credo che si tratti di un atto di civiltà. Si tratta di una misura di screening che va a beneficio di tutti» spiega Giannelli, che ha lanciato un appello perché ci sia la massima adesione. «Mi meraviglia il rifiuto da parte di alcuni colleghi» osserva la dottoressa Ambrosi. «Io l’ho fatto e lo rifarò a spese mie tra 20 giorni, soprattutto perché sappiamo bene che non garantire le distanze a scuola sarà in molti casi un’utopia». C’è poi chi avrebbe preferito il tampone, come Cinzia Ruggeri dei Cobas: «Non possiamo nasconderci che non ha molto senso fare i test 20 giorni prima della riapertura delle scuole. Forse sarebbe stato più opportuno pensare ai tamponi, anche per studenti e alunni, in particolare per i bambini delle scuole dell’infanzia e dei nidi. Basti pensare che per i più piccoli le linee guida per i campus estivi, fino al 31 agosto, prevedevano gruppi fino a un massimo di 5/6 bambini, mentre per la scuola “tradizionale” si potrà arrivare a classi di 28» osserva Ruggeri.

Pochi supplenti e pochi bidelli

Il Governo ha annunciato il via libera all’assunzione, con procedura semplificata, di 85mila insegnanti per coprire le esigenze di organico e in particolare le supplenze, che potrebbero rendersi necessarie in caso di contagio dei docenti. Ma gli insegnanti non nascondono le preoccupazioni: «Sono numeri insufficienti, che bastano a malapena a coprire il normale turn over dei pensionamenti. E non si è pensato al personale ATA: sono proprio i bidelli che avranno compiti aggiuntivi, come il controllo di ingressi e uscite, o l’igienizzazione e sanificazione dei locali» denuncia la responsabile Cobas della provincia di Ancona.

La didattica a distanza è autogestita

In generale, manca una vera riflessione sulla didattica a distanza e delle vere linee guida. «Anche in una regione come la mia, l’Umbria, che ha registrato pochi contagi, non è pensabile che non ci siano casi di positività» osserva Daniela Ambrosi dell’Associazione Docenti italiani. «Quello che mi preoccupa è come saranno gestite le assenze dei docenti. Io, per esempio, insegno scienze in un liceo scientifico e ho 7 classi. Se dovessi stare a casa si bloccherebbe l’attività in tutte e 7? Personalmente cercherò di sviluppare un programma che porti gli studenti in esterna, sul territorio, con laboratori sul campo, ricerche e attività che possano anche sviluppare in autonomia o da casa, in caso di chiusure. Purtroppo ci si deve affidare al buon senso dei dirigenti scolastici e dei singoli insegnanti, e soprattutto alle competenze personali di ciascuno perché nei mesi scorsi non si è pensato a organizzare una vera didattica a distanza o quantomeno mista».

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