Io, una fisioterapista in terapia intensiva

Una fisioterapista racconta il suo lavoro in terapia intensiva tra i malati di Covid-19. I pazienti restano per settimane sdraiati a pancia in giù, per respirare meglio con la macchina, con una pila di asciugamani sotto il petto, in modo da avere le spalle e la testa sollevate. ll volto resta però schiacciato dal respiratore. Alla fine si ritrovano con polmoni atrofizzati e volti tumefatti. Ecco perché anche il suo lavoro ora si svolge in prima linea

Rientro ora dal mio primo giorno in terapia intensiva in un grande ospedale di Milano, dove lavoro come fisioterapista, trasformato in centro Covid. Tutto l’ospedale ora ospita solo pazienti con il coronavirus. La struttura si è convertita, si è adattata all’emergenza. E così io, noi, altri fisioterapisti abbiamo fatto altrettanto, com’è giusto che accada. Abbiamo risposto alla richiesta di supporto in terapia intensiva per dare il cambio a chi c’è stato finora. In fondo siamo solo scesi al piano di sotto, un click in ascensore, una tappa intermedia nel nostro solito percorso. E invece siamo entrati in un’altra dimensione. Lì è iniziata la mia vita sospesa perché, se nella storia di tutti noi ci sarà un “prima” e un “dopo” coronavirus, intanto c’è un “durante”, diverso da tutto ciò che è stato finora e che sarà domani. E se è vero che nessuno di noi può immaginare il dopo, ora c’è questo “oggi” con cui fare i conti. Per alcuni di noi davvero inimmaginabile.

Ci siamo vestiti come palombari: copriscarpe, camice, tre paia di guanti, due cuffie, copriocchiali, mascherina. Pannolone. Sì, ci siamo corazzati pure lì, perché una volta ultimata la vestizione, non è possibile per tutto il turno andare in bagno, né bere né mangiare. Non puoi toglierti parti della divisa, ci sono procedure molto rigide da rispettare, anche mentre si indossano i vari capi. Non puoi toccare parti del corpo, non puoi grattarti il viso o spostarti gl occhiali. Né prima, né durante il turno. Ci sentivamo degli astronauti quando abbiamo iniziato il nostro lavoro, un lavoro del tutto nuovo: siamo saliti su un binario parallelo. Destinazione ignota. Procediamo a tentativi, curiamo, applichiamo dei protocolli ma stavolta non sappiamo davvero se e quanto funzioneranno. Non sappiamo che grado di normalità potrà recuperare chi è stato colpito da questa malattia.

La polmonite del coronavirus lascia cicatrici profonde nei polmoni, come un tessuto quando si accartoccia, come le catene montuose venute su dagli oceani. Ma soprattutto sfigura le persone: per settimane restano a pancia in giù, la posizione migliore per aiutarle a respirare con la macchina, adagiate con una pila di asciugamani sotto il petto, in modo da avere le spalle e la testa sollevate. Ma nonostante tutto, il volto resta schiacciato dal respiratore che, come una proboscide, spunta da ogni letto a ricordare che questa non è una corsia come le altre, questa non è una malattia come le altre. Stare settimane con la fronte e il mento appoggiate sul cuscino, braccia e gambe inerti, dorso ricurvo, in coma farmacologico mentre il tubo respira per te, vuol dire ritrovarsi con le piaghe da decubito sul viso. Quelle ferite che siamo abituati a trattare in altre parti del corpo, le più nascoste, ora sono lì, davanti a tutti, in mostra, senza che sia necessario spogliarsi.

Vedere le persone così, con il volto tumefatto, è stato uno shock. Te lo aspetti dopo un incidente, non dopo una polmonite. Quando subentriamo noi fisioterapisti, è proprio il momento in cui viene tolto il respiratore, la fase in cui il medico volta a pancia in su il paziente, dopo settimane in cui è stato prono. Le persone sono ancora sotto pesanti anestetici, confuse ma vigili. Parlano ma non si orientano, sono presenti ma stranite. Noi abbiamo il compito di aiutarle a ritrovare quel che resta dei loro polmoni, a farli tornare a funzionare in modo autonomo, passando prima dalla fase dell’ossigeno, per poi eliminare anche questo. Passaggi graduali fatti di esercizi minimi di ventilazione dove si torna man mano padroni di un gesto meccanico, involontario, che invece adesso è in parte nelle nostre mani. Nelle nostre e in quelle del paziente, chiamato a collaborare con piccoli gesti che poi, giorno dopo giorno, coinvolgono anche gli arti.

Stamattina ho visto un uomo di 38 anni, uno di 52 e uno di 60. Inerti, a faccia in giù, con il macchinario che respirava per loro. Con il medico li abbiamo voltati e così si è aperta per loro la nuova fase: quella senza respiratore, quella del ritorno a un inizio di vita autonoma. Un momento di rinascita, una tappa che segna una vittoria. Li ho aiutati nelle prime operazioni di pulizia dei polmoni, dove si annidano secrezioni che vanno rimosse. Piccoli gesti per cui è richiesta massima attenzione, perché la bocca spesso è tumefatta di cicatrici, immobilizzata com’è per giorni dall’ingresso del respiratore. Le nostre mani rischiano di ferire. È vero, siamo abituati alla delicatezza, al rispetto del corpo, ma percorriamo strade già note, cioè trattiamo malattie e problemi che colpiscono certe parti del corpo, su cui sappiamo con chiarezza come intervenire.

Non ero pronta a un virus nanometrico che atrofizza i polmoni ma poi deforma i volti. Non ero pronta a vedere cambiati i connotati di una persona. Finora il mio lavoro era quello di curare disturbi all’apparato urinario: vescica, prostata, uretra. Sono specializzata nei problemi intimi, che non si vedono. Disfunzioni invalidanti, che però non marchiano in modo evidente il fisico. Il covid invece è come un tatuaggio. I segni lasciano traccia nel respiro, che diventa corto, e sul viso, sulle bocche di queste persone che torneranno a sorridere, ritroveranno la loro vita fuori da questa dimensione sospesa, ma avranno sempre sulla fronte e sul mento un’ombra a ricordargli le loro settimane a faccia in giù.

Leggo favole dietro una porta chiusa

VEDI ANCHE

Leggo favole dietro una porta chiusa

Coronavirus: «Come ho curato Mattia, il paziente 1»

VEDI ANCHE

Coronavirus: «Come ho curato Mattia, il paziente 1»

Riproduzione riservata