Le fabbriche riaprono il 4 maggio e anche gli ospedali tentano di tornare alla normalità. Il numero di contagi sta diminuendo, i pazienti stanno man mano liberando posti letto, ma pensare di riprogrammare visite e interventi è ancora difficile. La fase 2 della sanità, insomma, è ancora sulla carta. Le Regioni ci provano, ognuna con la propria specificità, ognuna “a mano libera”, un po’ come sta accadendo per le ripartenze delle attività, con i presidenti che scalpitano e il dibattito poltico che si riprende la scena. Di sicuro la riapertura degli ospedali non può prescindere dalle caratteristiche dei territori: contano il numero di contagi e di ricoveri ancora in atto, il numero e il tipo di ospedali, il modo in cui l’emergenza è stata affrontata.
Infermieri e OSS in cassa integrazione
Per ora non sono previsti sostegni agli ospedali per la riorganizzazione, tant’è che diverse strutture stanno decidendo di utilizzare lo strumento della cassa Covid per mettere in cassa integrazione il personale, cioè infermieri e Oss. Questo succede perché gli ospedali, strizzati dall’emergenza, avendo rinunciato a tante prestazioni per concentrarsi sui pazienti Covid, devono in qualche modo “rientrare” dei costi. Intanto il ministro della Sanità Roberto Speranza, intervistato a Radio Capital, anticipa che nel prossimo decreto ci saranno fondi per le strutture che possano occuparsi esclusivamente di pazienti contagiati dal coronavirus, per evitare che gli ospedali – come è successo a Codogno e nella bergamasca – diventino focolai. Il futuro immediato, insomma, vista la convivenza con il virus, è negli ospedali dedicati al Covid.
Gli ospedali nell’emergenza
Ma intanto cosa sta succedendo oggi nei nostri ospedali? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e guardare cos’è successo appena ieri, durante l’emergenza. Ci aiuta a fare una mappatura il dottor Sergio Venturi, medico e commissario per la gestione dell’emergenza in Emilia Romagna. «Il criterio decisivo è stata la capienza. Gli ospedali più piccoli sono diventati centri Covid: hanno sospeso quasi tutta la loro attività e si sono concentrati sull’emergenza. I grossi ospedali invece hanno potuto mantenere la differenziazione: reparti e percorsi dedicati, sale di rianimazione dedicate. Qui però nei momenti del picco si è rischiato il collasso, dato il numero elevatissimo di pazienti, e anche il contagio, proprio per il grande afflusso. Poi ci sono i cosiddetti hub, i poli specializzati, che sono rimasti tali (per esempio le eccellenze di neurologia, cardiologia o pediatria): qui sono stati accolti pazienti Covid ma solo con problemi specifici, quelli appunto per cui il centro è specializzato. Infine c’è tutta la rete che ha accolto le persone in quarantena, cioè le strutture di riabilitazione – private e pubbliche – che man mano si sono convertite dovendo ospitare i pazienti guariti ma non ancora negativi (chi ha famiglia e vive in case piccole, per esempio, oppure chi deve fare fisioterapia)».
Gli ospedali oggi
Ecco così che la ripartenza è diversa per ogni tipo di struttura. Ogni ospedale dipende dall’azienda sanitaria, quindi dalla Regione. Le Regioni stanno mandando alle aziende sanitarie linee guida a cui fare riferimento, approvate in questi giorni nelle varie Giunte. Non tutti gli ospedali riescono a seguirle. «Nelle linee guida si indica come programmare gli interventi chirurgici in base alla gravità, si inizia a valutare come eseguire le visite specialistiche (per esempio prenotando un paziente ogni quarto d’ora), come far accedere i pazienti, quindi si prevedono tutte le misure di distanziamento e di sicurezza». Ma c’è chi può ripartire velocemente, forte di pochi contagi, e chi invece ha gli ospedali ancora occupati da pazienti Covid. «La situazione più semplice da gestire è nei grandi ospedali, dove si stanno liberando man mano dei reparti, che vengono sanificati e riportati alla loro destinazione originaria, come le unità coronariche, l’emodinamica, la Stroke unit, dove prevista. L’ospedale di Crema, per esempio, una delle prime città colpite, si è attrezzato con una sorta di ‘polmone’, aree che possono essere immediatamente riaperte proprio per far fronte a un eventuale ritorno di casi di Covid».
Quello che si capisce oggi, è che si potrà tornare negli ospedali quando si riuscirà a istituire dei percorsi dedicati. In alcuni è stato già fatto, anche riguardo all’accesso al pronto soccorso (che finora i pazienti evitavano, quando possibile). «In Emilia Romagna, per esempio, chi arriva con la febbre o comunque con sospetto di Covid (per esempio reduce da polmonite) viene sottoposto a tampone e – se positivo – rimandato a casa. E lì monitorato. Se necessita di intervento chirurgico, si opera ma con tutta una serie di precauzioni: accesso in sala operatoria dedicato, sala dedicata, attrezzatura monouso ecc. Si cerca di organizzarsi anche nelle strutture più piccole, dove però in proporzione molti letti sono ancora occupati dai pazienti Covid e dov’è più difficile avere ascensori, percorsi e reparti diversi: qui si tende a concentrare i malati in un piano e i sospetti in attesa di tampone in un altro (pazienti magari negativi ma in osservazione perché con polmonite)».
Cosa si può fare dal 4 maggio
Dalle indicazioni in arrivo in questi giorni alle direzioni sanitarie, per ora si possono eseguire ricoveri programmati, dove “comanda” l’urgenza e la gravità del problema, le visite ambulatoriali di persone con malattie croniche o rare, le visite neurologiche e gli screening oncologici. Vengono monitorate e accolte le gravidanze e le nascite, mentrerimandate ancora la chirurgia ambulatoriale e le visite medico sportive.
Come già nelle Asl, in generale le indicazioni sono di accedere con la mascherina e disinfettarsi le mani. In alcune regioni, come il Veneto e l’Emilia Romagna, si faranno tamponi anche ai visitatori dei pazienti ricoverati. In Lombardia in generale non si accettano visitatori, a meno che non si tratti di pazienti con gravi disabilità o problemi. Insomma, è ancora difficile parlare di normalità.
Come riorganizzare la fase 2
La verità è che manca un piano nazionale di intervento. Il dottor William Raffaeli, direttore e fondatore dell’Istituto ISAL (Istituto di ricerca e formazione in scienze algologiche), ha sollecitato più volte la creazione di un “gabinetto nazionale” in cui tutti i presidenti delle Regioni definiscano una strategia comune, al di là delle specificità. «Se la sanità è autonoma, il virus però non ha confini. Invece ogni Regione nell’emergenza ha dato una risposta sulla base del proprio contesto. Manca ancora oggi un vero piano pandemico. Abbiamo una medicina sempre più personalizzata, sappiamo cambiare un cuore ma non abbiamo un’organizzazione preventiva sul disastro pandemico. Non c’è neanche adesso. Occorre definire a livello regionale quali sono gli ospedali “puliti” e quali i Covid (per esempio gli stessi ospedali da campo). Occorre indicare fin d’ora le strutture per la quarantena, sia nel post ricovero che in tutti quei casi di positività che non necessitano di ricovero, ma che possono rappresentare fonte di contagio in famiglia: si è visto che tra tutti i contagi, almeno il 20 per cento è avvenuto in casa. L’ideale per questo scopo sono gli alberghi, dove si potrebbero monitorare i pazienti grazie alla telemedicina. È una realtà che funziona già in parte, non rappresenta il futuro ma è già il nostro presente in molti ospedali, e i costi non sono elevati. Esiste già una rete di medici volontari che si presterebbero a monitorare i pazienti, trasmettendo i dati a una sorta di centralina».
I centri Covid
Dunque in generale gli ospedali si stanno riconvertendo e, dove possibile, stanno creando percorsi diversificati. Ma per affrontare una nuova emergenza l’ideale sarebbe averne alcuni dedicati esclusivamente ai Covid. Secondo il ministro Speranza, il primo passo è proprio questo: «le Regioni individuino, e creino se necessario, ospedali Covid.» Si potrebbe pensare a modelli come quello realizzato in zona Fiera a Milano, oggi sotto utilizzato per carenza di personale medico e infermieristico. Comunque saranno quelle strutture, dotate anche di letti in rianimazione, che dovranno accogliere i casi intercettati sul territorio e trattarli.
La medicina di territorio
Già, la medicina di territorio, quella che, specialmente in Lombardia, si è dimostrata carente nella prima fase. Si chiede a gran voce, e da più parti, di ripristinare questa rete preziosa, che lavora in parallelo agli ospedali. «Già la legge Balduzzi del 2012 aveva cercato di organizzare i territori creando i Cap, Centri di assistenza primaria, con medici di base che lavorano insieme a vari specialisti, creando un primo salvagente. Il loro sviluppo è stato a macchia di leopardo e laddove non si sono costituiti, si è persa la poccibilità di dare una risposta ai bisogni dei pazianti, soprattutto se affetti da malattie cronico/degenerative, oppure anziani che richiedano un’assistenza a lungo termine. Sono stati smantellati per imporre una Sanità centralizzata, dove si è persa la possibilità di intercettare i bisogni del paziente». Simona Liguori, oncologa ed esperta in cure palliative, è anche vicepresidente della commissione Sanità nella Regione Friuli Venezia Giulia. Ha fatto della rete territoriale la sua battaglia, allineata con quei 100mila medici che hanno firmato una lettera di appello al Ministero della Sanità che evidenzia la centralità della medicina del territorio e l’importanza delle Usca (qui il testo della lettera). «La fase 2 deve tenere conto del territorio. Non basta pensare ai centri Covid. Si tratta di intercettare i pazienti Covid fin da subito e trattarli a casa, se possibile, oppure in strutture a loro dedicate se la convivenza risulta pericolosa. Il decreto Cura Italia prevede le Usca: una ogni 50mila abitanti, guardie mediche che visitino nelle abitazioni e nelle case di riposo e riconoscano i pazienti presumibilmente positivi. Si tratta poi di far loro il tampone e iniziare subito le cure. Si è visto che se si riesce a iniziare le cure precoci al domicilio si può evitare l’ospedalizzazione. Questi medici devono fare da sentinelle e poter lavorare con medici di famiglia e pediatri, in connessione con il dipartimento di prevenzione delle malattie infettive della Asl. La solidità delle Reti di Protezione territoriali ci consentirà una convivenza con il virus fino alla scoperta del vaccino».