Quando arriverà il vaccino

Potrebbe arrivare dall’Italia il primo vaccino contro il coronavirus, ma occorre tempo e non sarà l'unica arma contro il COVID-19. Gli esperti invitano alla cautela

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità solo il vaccino potrà porre fine al contagio da coronavirus, ma quanto si dovrà aspettare? Nella corsa a trovare una soluzione efficace, si è inserita anche l’azienda italiana ADVENT IRBM di Pomezia, che ha annunciato che il vaccino potrà essere disponibile già da settembre per il personale sanitario e le forze dell’ordine.

Occorre tempo perché il vaccino sia disponibile

Un tempo record dal momento che occorrono in media 2-3 anni per la commercializzazione. «L’annuncio dell’azienda non significa che lo potremo somministrare a tutti ma solo che, terminata la fase 1 di test sull’uomo, si passerà alla fase 2 che serve a valutare la tollerabilità e sicurezza di un prodotto già testato sugli animali senza aver dato conseguenze negative» chiarisce Rocco Russo, responsabile del tavolo sulle vaccinazioni della Società Italiana di Pediatra. «Non è detto, comunque, che vada bene per tutti, in particolare per i bambini, né che sia l’arma più efficace contro il COVID-19» aggiunge l’esperto.

Tutte le fasi da superare

Sono oltre 50 i progetti in corso nel mondo per mettere a punto un vaccino contro il Sars-Cov2. In Italia la ADVENT IRBM di Pomezia, che lavora con lo Jenner Institute della britannica Oxford University, ha annunciato di aver terminato con successo i test preclinici sugli animali e di voler terminare la fase 1 entro il 1° giugno. Ma se da un lato c’è chi spera di poterne disporre a breve, dall’altro c’è chi teme che non si rispettino tutte le tappe previste per la sperimentazione: «Siamo in emergenza, dobbiamo correre, ma questo non significa essere frettolosi. Il vaccino ha già superato le sperimentazioni di tossicità sugli animali ma non dobbiamo illuderci di averlo a breve» spiega Russo.

Ora siamo alla fase 1

«Il fatto che si parli di settembre non significa che ci sarà una fiala pronta da somministrare a tutta la popolazione, ma che si passerà alla fase 2, dopo avere già superato la fase zero preclinica, di test sugli animali, e la fase 1 che è in corso su un numero ristretto di soggetti sani volontari. Quindi si deve ancora verificare l’immunogenicità, ossia la risposta in termini di anticorpi, e stabilire i dosaggi e il protocollo. Poi si passerà alla fase 3 con la somministrazione a un’ampia porzione di popolazione per valutare la risposta. Solo a questo punto arriverà l’approvazione da parte delle autorità competenti (l’agenzia europea EMA, l’americana FDA, l’OMS e l’AIFA in Italia) per registrare e commercializzare il vaccino» spiega Russo.  

La fase della produzione richiede altro tempo

«Oltre all’efficacia occorre pensare alla produzione: se anche scoprissimo un vaccino domattina, non lo avremmo disponibile in migliaia di dosi per tutti. È prematuro pensare di poter contare oggi su un vaccino a breve. Io continuo a pensare che occorrerà circa un anno» spiega Raffaele Bruno, docente di virologia all’Università di Pavia e Direttore della UOC Malattie infettive 1 del Policlinico San Matteo di Pavia.

«Anche dopo averlo commercializzato, si dovranno monitorare efficacia e sicurezza sull’intera popolazione e nel lungo periodo. Ad oggi, comunque, si sta testando su un campione di adulti tra i 18 e i 55 anni, quindi anche se supererà tutti gli step non sarà adatto a tutti. Per esempio non ai bambini, per i quali occorrerà un’ulteriore sperimentazione» spiega Russo.  

Il vaccino non sarà l’unica soluzione

Quello che tutti si chiedono, intanto, è se sarà la soluzione definitiva contro il coronavirus. «Per sviluppare un vaccino si deve prima conoscere il virus, poi capire come agisce e infine come contrastarlo: come se si volesse sapere se il nemico che abbiamo di fronte è un serial killer o un ladro di auto. Noi oggi abbiamo l’identikit: si è visto che fa parte della famiglia dei coronavirus e che ha degli “spike”, delle “braccia” con le quali si lega alla cellula per poi replicarsi. L’attenzione, nel mettere a punto un vaccino, si è concentrata proprio sugli “spike”, ma non si esclude la possibilità che ci siano altri meccanismi tramite cui il virus potrebbe internalizzarsi, quindi entrare nell’organismo; meccanismi che potrebbero inficiare l’efficacia del vaccino» spiega l’esperto di vaccinazioni della Società Italiana di Pediatria. Allora quali altre soluzioni abbiamo?

Altre soluzioni dai farmaci?

«Oltre alle sperimentazioni in corso per trovare una forma di prevenzione contro il Sars-Cov2, in Cina si sta testando anche un vaccino “terapeutico”: viene somministrato a pazienti ammalati, ma siamo all’inizio. La fase 1 terminerà nel 2024» spiega Russo. Nel frattempo, quindi, dobbiamo affidarci alle terapie che si stanno provando anche in Italia, da quelle con eparina o clorachina, agli antivirali o alle infusioni di plasma, sperimentate anche all’ospedale San Matteo di Pavia? «Solo un vaccino può eliminare una malattia infettiva, ma in attesa di averlo l’ideale sarebbe che ci fosse un farmaco efficace. Anche perché qualcuno potrebbe sempre opporsi alla vaccinazione, come i No Vax».

Al momento, però, non ci sono indicazioni su un farmaco più indicato di un altro: «Purtroppo si tratta di una malattia nella quale, a seconda delle fasi, possono essere più utili o necessari degli antivirali o degli antinfiammatori. Quanto al plasma, abbiamo appena terminato l’arruolamento dei volontari per la sperimentazione, quindi nelle prossime settimane potremmo avere maggiori riscontri» spiega Bruno.

Ci aspettano altre chiusure?

Secondo gli esperti al momento l’unica arma efficace restano le misure di protezione personale (distanziamento, mascherina e lavaggio delle mani). Ma dobbiamo aspettarci nuovi picchi e nuove chiusure alternate ad aperture? «Molto dipenderà dagli effetti della riapertura, io sono preoccupato. Abbiamo appena pubblicato sulla rivista Nature un modello chiamato SIDARTHE, per valutare l’impatto di contromisure che includono delle strategie di contenimento del virus (quarantena, distanziamento sociale, test e tracciamento). Lo studio, condotto dalla Fondazione IRCCS Policlino San Matteo di Pavia, Università di Pavia, Università di Trento, di Udine e del Politecnico di Milano, indica che potrebbero esserci fino a 70mila vittime solo nel primo anno con un lockdown allentato. Quello che possiamo dire è che se il virus non diventerà meno aggressivo, una seconda ondata di contagi potrebbe portare a una risalita della la curva epidemica tale da costringere a una nuova chiusura, anche più rigida di quello in corso» spiega il professor Bruno.

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