Vaccino coronavirus

Nel laboratorio italiano che sta lavorando al vaccino

Trenta team in tutto il mondo stanno cooperando per arrivare a produrre il prima possibile le milioni di dosi che fermeranno la pandemia di coronavirus. Tra i laboratori più promettenti ce n’è uno, italiano, che sta già iniziando le sperimentazioni sull’uomo

Questa volta non è scattata la classica corsa a chi arriverà per primo alla scoperta del vaccino per il coronavirus, ma è nata una rete globale di ricercatori pronti a collaborare.

Servirà un’azione mondiale per avere le quantità giuste nel minor tempo possibile: miliardi di dosi, non per forza tutte uguali, sia nella formula sia nel “formato”.

In America, per esempio, l’Università di Pittsburgh sta lavorando a un’immunizzazione sotto forma di patch. Si tratta in pratica di un cerotto grande quanto un polpastrello composto da 400 miniaghi che sarebbe particolarmente facile e comodo da utilizzare. Nel team di ricerca, tra gli altri, spicca anche il professor Andrea Gambotto, cervello italiano in fuga da oltre 25 anni.

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A casa nostra, intanto, una tessera del puzzle si muove a grande velocità a Pomezia, una trentina di chilometri da Roma. Qui sorge Irbm, una società nata nel 2010. «Nel 2015 abbiamo sviluppato il vaccino per Ebola, ora siamo pronti per questa sfida con un partner d’eccezione: lo Jenner Institute, un istituto di ricerca indipendente dell’università di Oxford che è tra i numeri uno nel campo dei vaccini» spiega l’amministratore delegato Matteo Liguori. Il gruppo italiano conta 250 ricercatori, di cui il 70% donne, che si dedicano anche a farmaci oncologici e cardiologici.

«In queste settimane passiamo alla sperimentazione sull’uomo. In teoria, dopo tocca alla fase clinica in cui si testano efficacia e sicurezza del prodotto. I nostri partner inglesi inizieranno a coinvolgere a maggio 550 volontari sani e prevedono, già a settembre, di utilizzare il vaccino in modalità di uso compassionevole (procedura richiesta per i farmaci che non hanno superato tutte le validazioni, ndr) sulle persone in prima linea, cioè medici, infermieri e forze dell’ordine».

Da noi? «Ci auguriamo che arrivi in tempi rapidissimi. Abbiamo saltato alcuni test sugli animali e siamo in contatto con istituzioni ed Aifa per un loro supporto ad abbreviare ogni fase».

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Tempo prezioso contro cui lotta quotidianamente la dottoressa Stefania Di Marco, responsabile scientifica di Advent, la sezione di Irbm che si occupa proprio del vaccino. Mascherine, guanti e abbigliamento speciale sono realtà anche in laboratorio. «Noi lavoriamo da sempre in “clean room”, stanze con aria filtrata in cui entriamo dopo lunghe procedure di vestizione per non contaminare i prodotti. Una goccia di sudore o uno starnuto? Usciamo, ci laviamo e ricominciamo da capo» nota questa biologa 54enne, nata a Rieti e che ha girato il mondo per fare ricerca.

«Ora procediamo con estrema attenzione perché abbiamo a che fare con il virus e dobbiamo anche noi osservare le distanze di sicurezza. Non stiamo più gomito a gomito, ma in ambienti diversi. Ci siamo organizzati su più turni per non incontrarci mai durante la giornata e comunichiamo via email. Sa una cosa? Mi mancano i colleghi, guardarsi negli occhi e capire che siamo sulla strada giusta. Dobbiamo fare lavoro di squadra ma a distanza è diverso, faticoso».

Ma come sarà questo vaccino?

«Il vaccino sarà di tipo genetico, ovvero fatto con un altro virus modificato, cambiato nel Dna. In pratica, prendiamo un adenovirus, che abbiamo scelto perché entra bene nell’organismo, e lo rendiamo innocuo disattivandolo, così non si replica. Poi, all’interno, in un pezzo di Dna, inseriamo la proteina Spike, quella che permette al Covid di entrare nell’organismo e legarsi alle cellule. Quando faremo l’iniezione all’uomo, il nostro virus starà lì in zona, nel braccio, perché non si replicherà, ma farà entrare la proteina Spike; il corpo la riconoscerà come estranea e quindi scatenerà il sistema immunitario. Così quando quella persona verrà davvero in contatto con il Covid lo attaccherà con i suoi anticorpi».

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Mentre parliamo, la dottoressa riceve decine di email e messaggi. Sembrano una collana con tante perle, che la legano alla vita normale, ammesso che in questo momento esista qualcosa di normale. «Le email sono del mio team: la maggior parte dei ricercatori ha meno di 30 anni, curriculum eccezionali e tanta voglia di compiere l’impresa del secolo. Sentono la pressione, dal loro operato dipendono migliaia di vite, così mi chiedono conferme e consigli. Io faccio un po’ da mamma e li tranquillizzo, filtrando scadenze e burocrazia. I messaggi invece sono dei miei genitori, che ogni giorno mi chiedono quando avremo il vaccino. Li richiamo, chiacchieriamo un po’ e poi ricordo loro che prima di tutto dovranno fare la profilassi contro l’influenza. Si farà tutto in autunno…».

È una data simbolo che ha scolpito nella mente anche la dottoressa Cinzia Volpari, 45 anni, braccio destro di Stefania Di Marco. «Lavoriamo da così tanto tempo insieme che è come se fossimo un tutt’uno, ma lei è la parte creativa, io quella analitica. Sono responsabile del controllo qualità. Per esempio, nei giorni scorsi abbiamo ricevuto i singoli componenti che faranno parte del vaccino e li testiamo uno per uno per vedere se la qualità è ottima; poi passiamo a controllare il prodotto finale, il flaconcino di profilassi; e infine validiamo l’intero processo di produzione, che deve essere sicuro e perfetto».

Già, perché una volta ottenuto il vaccino bisognerà produrlo in milioni di dosi: ecco, quindi, che anche su questo fronte serviranno collaborazioni mondiali con i big dell’industria farmaceutica. «Intanto, con la mia squadra controlliamo tutti i passaggi. E ogni notte ho un incubo: sogno che qualcosa vada storto e si debba fermare tutto». Nel letto, al suo fianco, c’è il marito mentre nell’altra stanza dormono i figli, 17 e 14 anni. «In questo periodo ci vediamo pochissimo e quando torno a casa ho sempre paura di essermi contagiata. I ragazzi, poi, non amano stare sotto i riflettori, non hanno nemmeno detto agli amici che cosa sto facendo. Va bene così, noi scienziati non cerchiamo la popolarità, vogliamo solo raggiungere l’obiettivo. Ci sarà tempo per festeggiare, magari con una bella vacanza, ma ora dobbiamo dare il massimo. Anzi di più».

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Sono una trentina le aziende e le università che in questo momento stanno lavorando ai vaccini contro il coronavirus. La società americana Moderna già a marzo ha annunciato i test su individui volontari. Qualche giorno dopo ha iniziato anche Onovio, un’azienda Usa sostenuta dall’Istituto americano della salute. Migal, istituto di ricerca israeliano, si sta focalizzando su un prodotto in gocce.

In Europa, ha fatto discutere la tedesca CureVac, che ha promesso di partire con la sperimentazione sull’uomo da giugno, perché al suo progetto di profilassi pare interessato persino il presidente Donald Trump. In Italia, invece, oltre a Irbm, si muove la compagnia biotech Takis, che sta addirittura valutando 5 prodotti diversi: i risultati saranno analizzati in collaborazione con l’Istituto Spallanzani e il vaccino migliore sarà provato sull’uomo in autunno.

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